Volessimo concederci una similitudine un poco spericolata, potremmo dire che i canali d’informazione sono il sistema nervoso del mondo. Una rete sensibile estesa su tutto il pianeta che reagisce al minimo (o massimo) stimolo e diffonde ovunque i segnali di dolore e di stress, localizzandoli con precisione.
A lungo, per mesi, ci ha fatto male l’Ucraina, oggi soffriamo per Taiwan. Non che l’emergenza europea sia superata e men che meno risolta, tutt’altro: è solo che da Oriente arriva un dolore nuovo, e l’attenzione si sposta inevitabilmente in quella direzione.
Un momento: abbiamo detto dolore “nuovo”? In realtà non potrebbe esserci infiammazione più stagionata di quella che ha il suo epicentro nell’isola del Pacifico, collocata tra il Mar cinese Orientale e quello Meridionale a circa 150 chilometri dalla costa.
Taiwan, o Formosa come un tempo era chiamata, è a lungo stata aperta a invasioni e contro invasioni, anche se la sua collocazione nazionale e culturale deve senza dubbio essere riconosciuta per cinese. In tempi relativamente recenti, ovvero fino al termine della Seconda guerra mondiale, è stata occupata dai giapponesi, che l’avevano strappata appunto alla Cina. Da un punto di vista geologico, Taiwan apparterrebbe di fatto all’arcipelago giapponese, con il quale condivide l’estrema instabilità sismologica: i terremoti, anche devastanti, sono eventi purtroppo non rari sull’isola.
La Cina, di fatto, l’ha sempre considerata “sua”: una provincia ancorata al largo, ecco tutto. Se l’è ripresa nel 1945, quando il Paese era retto dai nazionalisti di Chiang Kai Shek; l’ha perduta nel 1949 quando la guerra civile, vinta dai comunisti di Mao Tse Tung, spinse Chiang a rifugiarvisi proclamando una “seconda Cina”, la Repubblica Cinese, separata, e ostile, da quella nata al termine della Lunga Marcia: la Repubblica Popolare Cinese, il gigante con capitale a Pechino che oggi ben conosciamo. Da allora, la Cina continentale non ha mai smesso di considerare la Cina insulare come una sua legittima proprietà. Sentimento, e aspirazione, a lungo ricambiate dalle autorità di Taiwan che, in linea del tutto teorica, hanno sempre sbandierato il progetto di riprendere il controllo, un giorno, sull’intera nazione.
Oggi, come sappiamo, Taiwan potrà dirsi fortunata se riuscirà a mantenere la sua indipendenza. La visita di Nancy Pelosi, che sia da considerare una “provocazione” o meno, ha portato il nervo dolente allo scoperto: la reazione cinese – le cui forze armate hanno di fatto simulato un’operazione di invasione dell’isola – lo dimostra. Dal 1949 Taiwan è entrata in un gioco molto più grande dell’isola stessa. Gli Stati Uniti, schierandosi subito a sua difesa, ne hanno fatto un caposaldo strategico per il controllo militare del Mar cinese Meridionale nel quale corrono rotte commerciali di fondamentale importanza. Così affermato il ruolo chiave dell’isola nello scacchiere del Pacifico, gli Usa hanno di fatto ingigantito il ruolo politico della nazione nata dalle ceneri del nazionalismo cinese, al punto che Taiwan per anni ha occupato il seggio della Cina nell’assemblea dell’Onu. Con l’affacciarsi della Repubblica Popolare sulla scena internazionale, dopo la morte di Mao nel 1976 e l’avvento al potere di Deng Xiao Ping, la necessità avvertita dal resto del mondo di fare i conti con questo gigante di colpo risvegliatosi ha progressivamente ridotto il bagaglio di potere e prestigio detenuto da Taiwan. Perduto il seggio all’Onu in favore di Pechino, il governo di Taipei ha visto sfumare fino all’evanescenza i suoi rapporti diplomatici con il resto del mondo. Preoccupati dalle reazioni rabbiose della Cina ad ogni invito formale esteso a Taiwan, un poco alla volta il mondo ha girato le spalle alla piccola isola orientale. A difenderla con atti formali come quello della visita di Nancy Pelosi oggi sono rimasti solo gli Stati Uniti. Un atteggiamento tutt’altro che disinteressato: in ballo ci sono le stesse questioni strategiche del 1949 e, in più, va tenuta in conto l’importanza dell’industria taiwanese, all’avanguardia nell’alta tecnologia, in particolare quella destinata ai computer.
Come si vede, non è uno scontro tra idealisti quello in atto tra Cina e Stati Uniti in relazione a Taiwan: proprio per niente. E tuttavia, bisogna sottolineare che, all’ombra dell’ombrello americano, in 70 anni Taiwan è passata dal regime autoritario di Chiang a un assetto politico interno che offre ai cittadini ampie garanzie democratiche e libertà civili ben più ampie di quelle concesse da Pechino alla sua popolazione. L’intensificarsi negli scorsi anni delle relazioni commerciali e culturali tra la Cina e Taiwan, sul piano commerciale e culturale, non su quello politico, aveva fatto credere che se formalmente Pechino, per salvare la faccia, mai avrebbe rinunciato alle sue rivendicazioni, di fatto avrebbe tacitamente accettato una “normalizzazione” dei rapporti. Così non è accaduto: con Xi Jin Ping al timone la musica è cambiata, la Cina vede alla sua portata il traguardo di prima economia mondiale, e il prestigio internazionale adesso conta più che mai. Anche a Hong Kong si era a lungo creduto che l’interesse commerciale e finanziario dovesse ragionevolmente prevalere su quello politico: sappiamo come è andata a finire.
Il linguaggio di Pechino oggi si allinea a quello di Mosca, che infatti ha subito difeso il diritto della Cina a eseguire manovre militari al largo (neanche tanto largo) di Taiwan: evidentemente solo le esercitazioni della Nato sono “intollerabili provocazioni”. Difficile ora prevedere quel che accadrà, e cioè se avremo una guerra totale, uno scontro limitato o uno stallo pieno di tensione. La certezza sembra essere una sola: in quel negozio di porcellane cinesi che è lo scacchiere del Pacifico, l’oggetto più fragile è senza dubbio la democrazia di Taiwan.
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