A partire almeno da Ingmar Bergman, ma con tutta probabilità anche da prima, il gioco degli scacchi si è prestato a farsi allegoria. Nel film “Il settimo sigillo” del 1957 il significato profondo ed esteso che la schermaglia da scacchiera poteva assumere si fece evidente.
Qualcuno ricorderà di aver visto la pellicola per la prima volta nel buio di un cineforum: il cavaliere Antonius Block, di ritorno dalla Terrasanta, sfida nientemeno che la Morte. Gioca con i pezzi bianchi, lasciando il nero alla tremenda Avversaria: “Molto appropriato, non trova?” commenta quest’ultima.
Perfino lo spettatore più disattento intuiva a quel punto trattarsi di cosa diversa dalla solita farsa di Franco e Ciccio (anche se una loro parodia del “Settimo sigillo” a molti non sarebbe spiaciuta): c’era dell’altro, e molto di più, e c’era grazie al genio di Bergman e al gioco degli scacchi che, nella sua geometria limpida e tuttavia piena di allusioni, forte di una avidità di logica tale da spingere per paradosso i giocatori ai confini dell’irrazionalità, costituiva la perfetta sintesi della battaglia dell’uomo contro i limiti impostigli dall’universo e da se stesso.
Più tardi, gli scacchi divennero allegoria epocale grazie al campionato del mondo disputato a Reykjavik tra il sovietico Boris Spasskij e l’americano Bobby Fischer. Nessun analista avrebbe potuto descrivere meglio la partita in corso negli anni della Guerra Fredda: un confronto fatto di mosse silenziose, condotto sul rischio dell’estremo, giocato in apparenza con cinica razionalità ma nella realtà condizionato da impulsi sotterranei, manie di grandezza, smisurato orgoglio e paranoia fatta ragion di Stato.
Oggi, in questo ultimo scorcio di 2022 nel quale alla grande Guerra Fredda si è sostituita una moltitudine di guerre più piccole ma caldissime, l’allegoria degli scacchi torna a materializzarsi grazie a Sara Khadim al-Sharia, la giovane campionessa iraniana che ai mondiali in Kazakhistan ha compiuto il gesto che, di questi tempi, più irrita il suo governo: si è rifiutata di indossare l’hijab, il velo che le leggi della Repubblica islamica vogliono obbligatorio.
Una mossa semplice, forse la più semplice che Sara abbia mai giocato in vita sua, eppure da immediato scacco matto. Minacce, bigottismo, repressione e violenza non soffocano il desiderio delle donne iraniane (condiviso da molti uomini) di liberarsi del giogo di una religione fatta superstizione, a sua volta sfruttata quale meccanismo di controllo e di gestione ferrea del potere.
Potremmo correre alle conclusioni e affermare che Sara Khadim al-Sharia ha già vinto la sua partita in nome della libertà. Per quanto forte sia la tentazione di ricorrere alla retorica, sappiamo bene che non è vero. Ci vorrà ancora tempo e tenacia per vincere in Iran, basti pensare che il presidente Ebrahim Raisi ha dichiarato che “nessuna pietà” sarà riconosciuta ai ribelli e, con la tipica faccia tosta dell’autocrate, ha finito per denunciare le “ingerenze” degli stranieri, ovvero di quei Paesi – segnatamente Stati Uniti e Israele – che avrebbero interesse a fomentare i “disordini”. Una formuletta che abbiamo sentito ripetere da Xi Jinping e da Vladimir Putin, sempre prontissimi ad attribuire a “forze esterne” le manifestazioni di scontento popolare create dai violenti limiti alla libertà personale imposti nei loro Paesi e dal disdegno per il mancato rispetto di quelli che, con formula ormai stanca, chiamiamo “diritti umani”, ma la cui violazione sta in effetti a dipingere uno scenario di giustizia amministrata a scopo politico, prigione, tortura, soppressione della libertà di parola.
Non basterà il coraggio pur ammirevolissimo di Sara a rovesciare questa situazione, eppure il suo attacco portato da semplice pedone al Re che sostiene di parlare in nome di Dio, è esemplare e necessario. E prima o poi da allegoria diventerà caposaldo nella storia del progresso.
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