Oggi finisce, in sordina (e non.. in sardina), un storia che, di fatto, è già terminata da un pezzo. È l’epopea del più vecchio partito italiano in vita, la Lega Nord le cui origini risalgono al 1989 o addirittura, se si considera la Liga Veneta che finirà con l’unirsi a quella lombarda nel movimento, al 1983. Con un congresso semi clandestino voluto da Matteo Salvini per ufficializzare la svolta sovranista e nazionalista del movimento e anche, diciamola tutta, a scaricare sulla vecchia Lega il debito dei 49 milioni, si spegnerà quella che per circa 30 anni ha preteso di essere la “voce del Nord”. Una forza nata dall’intuizione di Umberto Bossi, un genio della politica al di là delle numerose contraddizioni e cadute di stile. Ora la creatura di quello che passerà ai posteri con l’appellativo dialettale di “Senatur” completa la sua mutazione di pelle e diventa la “Lega per Salvini premier” non più radicata nel solo Settentrione ma diffusa su tutto il territorio nazionale, tant è che il leader è stato formalmente eletto in Calabria.
Una scelta che ha provocato più di un luccicone nei vecchi “leghisti” che però, con le eccezioni del varesino Giuseppe Leoni, uno dei fondatori del vecchio Carroccio, dell’ex ministro lecchese Roberto Castelli e pochi altri sono rimasti in silenzio. Un po’ per non rischiare di perdere le posizioni guadagnate con Salvini, poi perché è dura contestare uno che ti ha portato ad avere più del 30% dei voti, un consenso che all’epoca altalenante di Bossi se lo sognavano. Il tramonto della “Lega Nord per l’indipendenza della Padania” (questa la denominazione fino a oggi) coincide con quello malinconico del vecchio leader, da tempo scomparso dalla scena, malato e in difficoltà economiche. Forse gli lasceranno il contentino della presidenza a vita senza però alcun ruolo operativo. Nel nuovo statuto resterà anche l’articolo uno che enuncia l’obiettivo dell’indipendenza della Padania, ormai solo parole.
La nuova Lega di Matteo Salvini, forte dei tanti consensi conquistati a Sud del Po, non può più permettersi di avere un occhio di riguardo per la cosiddetta “Questione Settentrionale”. Agli slogan d’antan “Prima i lombardi” o “Prima i veneti” è subentrato l’attuale “Prima gli italiani” con lo spostamento a destra di un partito che nella vecchia gestione ha spesso oscillato nella geografia politica. Alleato privilegiato di Berlusconi ma sempre con un occhio alle istanze sociali della sinistra e, almeno per una breve stagione, a fianco del Pd di D’Alema nel sostegno al governo guidato da Lamberto Dini dopo il ribaltone provocato proprio da Bossi.
Altri tempi. Ma adesso che questa esperienza politica storica si chiude, si può tentare di capire che cosa ha lasciato, soprattutto a quel Nord che voleva emancipare con vari espedienti, dalla secessione, alla devolution al federalismo, da Roma sempre associata all’attributo di “ladrona”.
In questa chiave si deve concludere che la vecchia Lega ha fallito la sua mission. La secessione è rimasta una virtualità punteggiata da fantomatici parlamenti e governi del Nord e partiti padani (uno di questi, ironia della sorte, “I Comunisti padani” proposto da Salvini). La devolution sull’esempio scozzese e il fascino di “Bravehart” ha ballato una sola estate. Resta il federalismo.
Sulla carta una riforma è stata approvata dopo un’infinita ed estenuante limatura. Ma qualcuno si è accorto degli effetti? E soprattutto ha risolto la “Questione Settentrionale” con l’effettivo mantenimento sul territorio di un’importante quota delle imposte introitate dallo Stato? La risposta è no.
Tant’è che dopo l’approvazione del federalismo e la bocciatura del referendum del 2006 che, fra le altre cose, devolveva alle Regioni la potestà legislativa esclusiva su alcune materie, Lombardia, Veneto e, con modalità diverse l’Emilia Romagna, rivendicano forme di autonomia rimaste in mezzo al guado. In questo caso pesa il cambio di maggioranza, con la Lega fuori dal governo. Ma anche all’epoca dell’esecutivo gialloverde, non è che ci si sia scaldati troppo sulla materia per evitare il rischio di perdere i consensi conquistati al Sud. Il federalismo in vigore, che non sarebbe piaciuto a Gianfranco Miglio, piuttosto ha aumentato i centri decisionali e perciò la burocrazia. Inoltre, l’afflato autonomista della Lega bossiana ha ispirato il centrosinistra a varare, per tentare di rimontare un consenso calante, una pasticciata riforma del titolo V della Costituzione madre di tanti sprechi nelle Regioni di cui si è interessata in abbondanza anche la magistratura.
Insomma quella della Lega Nord, complice anche la crisi infinita dell’ultimo decennio, sembra essere stata una grande illusione alimentata da Umberto Bossi che in questo era un vero fenomeno.
E, seppur in concorrenza con quella “Meridionale” che continua ad acuirsi, la “Questione Settentrionale” resta lì in apparenza abbandonata nell’attesa che qualcuno si ricordi ancora di lei.
© RIPRODUZIONE RISERVATA