Nel gioco del Monopoli capita di finire nella casella “Ritorna al via”. E’ quello che sta capitando alla Lega di Matteo Salvini che forse potrebbe rimettere nel logo del partito la parola “Nord” che ha voluto abolire per tentare di creare un movimento sovranista e nazionale. Il voto in Umbria le ha tolto l’ultimo presidente di Regione sotto il Po e al Sud, oltre agli elettori, sono in fuga anche parecchi militanti anche perché in disaccordo sulla riforma autonomista di Calderoli. Sembra, insomma, di tornare al vecchio Carroccio condotto da Umberto Bossi a suon di slogan come “Roma ladrona” che propugnava prima la secessione dei territori settentrionali (la mitica “Padania”) quindi la devolution, e poi il federalismo. Tutti obiettivi mai centrati, tant’è che, a oggi, con la riforma per l’autonomia impantanata, invisa agli alleati della Lega e azzoppata dalla Corte Costituzionale, la più eclatante forma di federalismo è quella realizzata in fretta e furia dal governo Amato nel 2001 con la modifica del Titolo V della Costituzione, che ha però solo trasformato le Regioni in nuovi centri di potere. Non a caso, Gianfranco Miglio, ideologo della forza politica bossiana, avversava il regionalismo e puntava sui Comuni come cardini del federalismo. La Lega nazionale e un po’ destrorsa di Salvini (l’Umberto aveva costruito un partito territoriale che strizzava l’occhio anche all’elettorato di sinistra) si trova poi in casa il problema rappresentato dal generale Vannacci che minaccia di costituire un movimento concorrenziale del carroccio e, soprattutto, la questione veneta. Il problema in questo caso è rappresentato da Luca Zaia, l’unico presidente di Regione che può fregiarsi del titolo di “governatore” non a sproposito. Non fosse altro perché dalle sue parti, nel Veneto, lo chiamano “Doge” e nelle ultime elezioni gli hanno tributato un consenso bulgaro. L’anno prossimo a Venezia e sulla terraferma si dovrà votare. Lo statuto regionale non prevede la possibilità del terzo mandato a Zaia ne ha già fatti due.
FdI del premier Giorgia Meloni, approfittando della circostanza, rivendica la candidatura, anche perché il partito non governa nessuna Regione del Nord pur avendo ottenuto la maggioranza relativa in tutte le elezioni degli ultimi due anni. Per contrastare questa aspirazione è ricomparsa la Liga, cioè la componente leghista del Veneto, legata al mito autonomista della Serenissima che già tanti problemi aveva creato anche a Bossi, più volte costretto a decapitarla. Da qui è arrivato un segnale a Salvini: se cederà a Giorgia, la Lega, in versione Liga correrà da sola alle elezioni del 2025.
Anche questo è un ritorno al passato. E un segnale del fallimento della politica del segretario leghista che, in veste di ministro delle Infrastrutture sta tentando di realizzare il ponte sullo Stretto di Messina anche per ribadire la vocazione “nazionale” del suo partito. Eppure, una Lega che torni a essere sindacato del Nord potrebbe non far male ai territori e allo stesso movimento. Tornando a sposare la questione Settentrionale che, se esiste, non è di destra o di sinistra, il Carroccio trarrebbe un giovamento anche in termini di voti almeno da queste parti. Spetta a Salvini decidere se seguire un’onda che ormai sta montando (un altro segnale arriva dalle manovre in preparazione del congresso della Lega Lombarda con la contrapposizione tra un candidato vicino al segretario e un altro, Massimiliano Romeo, più “nordista”), o tentare di smorzarla e continuare con il partito nazionale che però deve trovare un altro passo. Da questa scelta dipenderà anche il futuro del “capitano”.
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