E così, finalmente, dopo un biennio di noiosissima emergenza pandemica (il Covid chi?) e dopo un mese di tediosissima emergenza bellica (l’Ucraina chi?), siamo tornati al vero succo, alla vera polpa, al vero motore immobile che definisce l’orizzonte culturale e tratteggia l’immaginario collettivo di noi italioti medi: la catastrofe pallonara.
Ragazzi, al novantaduesimo dell’ormai mitologica partita Italia-Macedonia del Nord, quando il tiro del carneade Trajkovski si è insaccato alle spalle di un imbolsitissimo Donnarumma, sancendo così la nostra eliminazione dai Mondiali, all’improvviso, come per magia, tutte le cose sono tornate al loro posto, le tessere del mosaico si sono incastonate a perfezione, il puzzle si è potuto dire compiuto. Ora l’ordine regna nelle case degli italiani.
Dallo schermo sono spariti, come spettri al canto del gallo, virologi, infettivologi, epidemiologi, in verità in disonorevole ritirata già da un po’ di mesi, ma anche colonnelli, generali di corpo d’armata, strateghi e geopolitici, che tutti garruli e baldanzosi avevano appena riassaporato i fasti delle guerre in Iraq, dell’invasione dell’Afghanistan e dei bombardamenti su Belgrado. E al loro posto sono riapparse quelle figure, quelle maschere, quei pupazzi che hanno segnato la nostra vita, dall’infanzia fino all’età adulta, domenica dopo domenica, campionato dopo campionato, Coppa Uefa dopo Coppa Uefa, Mondiali dopo Mondiali. I giornalisti sportivi. Anzi, di più. Gli analisti sportivi. I commentatori sportivi. I Maestri sportivi.
Ora, è vero che i giornalisti sportivi rappresentano una sottocategoria della categoria dei giornalisti, che a loro volta sono già di per sé una sottocategoria - con tutte le eccezioni del caso, per carità, che nessuno si offenda, che in ogni quotidiano ci sono colleghi bravissimi, preparati, scrupolosi eccetera eccetera – ma qui ormai con tutta onestà, e giovedì sera se ne è avuta l’ennesima riprova, non siamo più nel giornalismo, non siamo più nel pamphlettismo, non siamo più nemmeno nel carduccismo e financo nel dannunzismo, perché i preclari colleghi di cui sopra in queste giornate tumultuose si sono già avventurati direttamente nel regno della commedia dell’arte, della pochade, della sceneggiata, del teatro dei pupi, con una tale profondità che prima o poi qualche antropologo culturale di livello dovrà decidersi a studiare come si deve.
È proprio così. Un secondo dopo l’eliminazione che ci fa sanguinare il cuore sono rinati dalle proprie ceneri, come l’Araba Fenice, tagli pregiatissimi e succulenti del rinomato carrello dei bolliti del giornalismo calcistico nazionale, gente scomparsa da decenni, gente data per dispersa dai Mondiali del ‘62, residuati bellici della Mitropa Cup di Carlo Codega, macchiette scimmiottanti, tanto per cambiare, l’inarrivabile Gianni Brera - che a sua volta declinava per il popolo l’ancor più inarrivabile Carlo Emilio Gadda - polverosissimi tromboni del mestiere più antico del mondo con certi riporti, certe pappagorge, certe chiazze di forfora sul colletto, certe cravatte anni Settanta, tutti ferocemente decisi a non mollare manco un millimetro di spazio agli urlanti e ululanti cronisti della nuova generazione, che inzaccherano di esclamativi, imperativi e superlativi - giusto per farvi capire il livello - anche uno 0-0 di fine stagione tra Spezia ed Empoli.
E da lì in avanti, è stato Circo Barnum. E basta e vergogna e mascalzoni ed è uno scandalo e hanno rovinato il gioco più bello del mondo e qui ci devono rendere conto e qui la devono pagare e chi si credono di essere e bisogna tornare al calcio pane e salame e ci vuole l’autarchia e bisogna ripartire dai vivai e bisogna riprendere a divertirsi e basta con i tatticismi esasperati e i bambini, Dio mio, i bambini, hanno fatto piangere i bambini, non pensano ai bambini, non amano i bambini e infatti i bambini non giocano più a calcio ma a Fortnite e bla bla bla. Tutto vero.
Ma questo torrente di retorica non è niente in confronto a quando, passata l’onda dell’indignazione, si è malinconicamente scivolati, nel cuore della notte davanti al camino e a una Vecchia Romagna, al momento dei ricordi e dell’aneddotica sui bei tempi che furono: quella volta che io e Paak Doo-ik, quell’altra volta che Boninsegna fece tremare i brasiliani e quella volta che Italia-Germania 4-3 e quella volta che gli eroi del Mundial e quella volta delle notti magiche e quando c’era Niccolò Carosio e quando c’era Nando Martellini e il gestaccio di quel soggetto di malarazza di Chinaglia e i Mondiali del ‘58 e Pozzo (e il duce) sì che li sapeva tenere in riga quei ragazzotti smidollati e altri tempi e bei tempi e che tempi, signora mia, quando c’era quella bella Italia popolare che bastavano pallone e bicicletta per essere felici e invece adesso guardi come ci siamo ridotti, caro lei…
Ma la cosa davvero spassosa è che gli stessi identici avvoltoi che svolazzano da due giorni sui cadaveri di Mancini&Gravina attaccati per i piedi a un lampione di piazzale Loreto, sono gli stessi che hanno passato anni a cinguettare e a trillare e a pigolare su quanto era bravo il mister e quanto era sagace il mister e quanto era stiloso ed elegante, ma anche modesto e generoso, il mister e che modernità e che gioco sempre all’attacco e che aggressione degli spazi e che diagonali e che freschezza tattica e che eupeptica coesione di gruppo che ci ha fatto dimenticare l’Italia sparagnina che giocava come ormai non gioca più nessuno.
E ce ne fosse uno che avesse timidamente ricordato quanto fosse stato casuale e, diciamoci la verità, rubacchiato l’Europeo della scorsa estate e ce ne fosse uno di questi vanitosi tromboni delle prestigiose televisioni a pagamento che ammettesse, sempre timidamente, che le migliori squadre del nostro campionato sono mediocri in patria e ridicole in Europa. Chissà come mai?
Eh sì, ce ne sarebbero di cose da scrivere sull’Italia del calcio. Conoscete un bravo giornalista sportivo, per caso?
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