Sono ragazzi. Ci sono momenti della vita nei quali uno inizia a sentirsi veramente anziano. Tra tutti, quando si ripensa agli anni verdi della scuola. Anzi, del liceo, perché da che mondo è mondo in Italia fanno tutti il liceo. Generalmente lo scientifico, poi qualcuno anche il classico o il linguistico o l’artistico o quelle che una volta si chiamavano magistrali. Ma soprattutto lo scientifico.
Siamo una repubblica fondata sul liceo scientifico.
E anche se sono trent’anni che continuiamo a ripeterci la necessità e l’urgenza di un robusto sistema scolastico professionale, tecnico e industriale, perché le aziende cercano disperatamente quei professionisti lì, noi, noi famiglie, noi genitori, tutti figli della riforma Gentile, condividiamo a parole l’urlo di dolore che ci lancia dai tempi di Carlo Codega il mercato del lavoro, poi però figurarsi se facciamo imprimere il marchio d’infamia delle “scuole di serie B” sul diploma dei nostri virgulti. Tutti poeti. Tutti a spasso. E quindi tutti quanti al liceo. Al liceo scientifico. Anche gente che di matematica, fisica, chimica e disegno tecnico - come chi scrive questo pezzo - non ci ha mai capito una mazza. E che ancora, di tanto in tanto, nelle sue notti più buie e tempestose, rivive terribili incubi fantozziani nei quali viene inseguito, ghermito e torturato dal testo unico di analisi matematica.
E quindi la seconda prova scritta della maturità era il vero spauracchio, il vero spettro, il vero babau che tutti atterriva, tutti annichiliva, tutti disintegrava sotto il suo incombere implacabile. Cosa avremmo pagato per saltarlo, quello scritto maledetto, quali marchingegni ci saremmo inventati pur di abolirlo, a quali santi ci saremmo appellati per sostituirlo con un trattato sulla pace nel mondo, il cinema espressionista tedesco e il teatro alternativo in calzamaglia, tutti argomenti fondamentali sui quali eravamo ferratissimi. E invece niente. Non c’è mai stato verso, nonostante le proteste e le occupazioni e le assemblee e le autogestioni e i tazebao e i proclami eroici e adamantini e palingenetici e basta qui e basta là e ministro mascalzone e premier farabutto e preside fascista e tutto il resto di quella meravigliosa retorica, che a ripensarci adesso, quarant’anni dopo, fa sbellicare dalle risate, ma anche sgorgare rimpianti e tenerezza.
Ora, è vero che il tempo è ciclico e che siamo tutti condannati ad assistere all’eterno ritorno del sempre uguale, ma i cortei di protesta degli studenti dei giorni scorsi contro la decisione del governo di uscire dallo stato emergenziale e reintrodurre così l’esame di maturità com’era prima del Covid, con tanto di prove scritte, appunto, è una delle cose più insensate e - con tutto il rispetto - più ridicole cui si sia assistito in questo biennio tragico. La tesi è grottesca. Visto che la Dad ha stravolto la partecipazione alle lezioni (vero) e che gli studenti hanno subìto un duro colpo non solo alla socialità, ma anche nella profondità di apprendimento (vero) e che quindi la loro preparazione è deficitaria rispetto alla situazione pre-2020 (vero), allora bisogna abolire gli scritti e fare anche quest’anno un unico e generico esamone orale che si basi sostanzialmente - questo il sottotesto mai dichiarato, ma evidente - su una reintroduzione 4.0 del “sei politico”, tanto amato dai loro genitori o addirittura (il tempo passa…) dei loro nonni.
Morale. Lo scritto è difficile e quindi non va fatto. L’orale è facile e quindi va fatto. E anche questa è una considerazione davvero lunare, perché se uno non sa niente di integrali, derivate o geometria analitica, non sa niente sia che debba scriverlo sia che debba spiegarlo e i danni della Dad e della clausura devastante a cui sono stati sottoposti i nostri ragazzi si vedrebbero sia nel primo caso sia nel secondo. O no? E questo vale anche per il latino, il greco e, addirittura, la prova di italiano, perché se non hai capito un tubo di Svevo e Pirandello la magagna salta fuori sia allo scritto sia all’orale. Anche se è vero che allo scritto si riesce a svicolare sul tema di attualità, dove i più furbi la possono buttare in caciara, mescolando un po’ di banalità sulla parità di genere, il rispetto delle diversità, il riscaldamento globale, le malefatte del potere e così il temino conformista che piace a tutti è bello e fatto. Sono pronti per diventare giornalisti.
Ora, al di là dell’ironia, se il rifiuto della prova scritta è un’astuzia per aggirare il Moloch della matematica, niente da dire - siamo stati tutti studenti somari - ma se invece, e il timore in effetti affiora, stiamo parlando di un rifiuto culturale della comunicazione scritta e della prova di valutazione, cioè di un testo che rimane, che è segnato, che è tracciato e dal quale non si può tornare indietro, allora la faccenda diventa seria. E grave. L’analisi delle competenze non è uno scherzo. Il vaglio delle capacità, la classifica dei risultati, delle vittorie e delle sconfitte, è un elemento integrante della vita, che può essere molto doloroso, ma che è imprescindibile. I riti di passaggio - e l’esame di maturità lo è al massimo grado - sono una cosa seria, decisiva, dirimente.
Se lo edulcoriamo e lo addomestichiamo, non significherebbe altro che fare un nuovo rovinoso passo verso un concetto di scuola irenica, ricreativa, pacioccona e livellatrice, una scuola luogo dell’uno vale uno, che abolisce la centralità del giudizio, a coronamento di una lunga e penosa storia, di un lungo percorso di appiattimento, di conformismo e di demagogia sbocciato nei meravigliosi anni Settanta e sviluppatosi via via, grazie all’ignavia dei governi, al consociativismo dell’opposizione, al collateralismo dei sindacati e al piagnisteo dei genitori, fino a trasformare la scuola in un “postificio”, in un ammortizzatore sociale a basso stipendio e basso profilo professionale, con tutti i risultati devastanti che vediamo da un trentennio. Ecco un buon motivo per scendere in piazza.
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