Non è questo il momento di far rullare i tamburi e dissotterrare l’ascia di guerra in nome della santa fede. Noi cattolici conosciamo il valore immenso della Messa, senza della quale semplicemente non c’è cristianesimo. E conosciamo anche il dovere della testimonianza in faccia al mondo, se serve anche alzando la voce e battendo i pugni sul tavolo.
Ma non è questo il momento delle prove muscolari. La situazione è troppo, maledettamente delicata. Chiedete a chi è stato in terapia intensiva, o a chi lì dentro ci lavora. Servono misura e ragionevolezza da parte di tutti. In un momento come questo, dove ognuno avrebbe buoni motivi per fare baccano e pestare i piedi (dai commercianti ai calciatori), agire da propellenti della tensione e dello scontro sociale, pur in nome di una causa altissima (come la libertà di celebrare Messa), nuoce al bene comune. Non è mancanza di “attributi”, come certuni dicono, da parte dei cattolici: è che gli “attributi” il Padreterno ce li ha dati insieme al cervello, e le due cose vanno coordinate, onde evitare fughe in avanti (o, al contrario, pavidi silenzi) di cui potremmo poi amaramente pentirci. E se il contagio dovesse ricominciare a correre?
Non mi accodo, quindi, al tam-tam mediatico di chi vorrebbe una Chiesa italiana più coraggiosa, pugnace e combattiva. Hanno torto, però, anche tutti quelli che minimizzano il problema della Messa, come se avessimo ora cose ben più importanti a cui pensare. Pure in questa direzione, purtroppo, la pancia calda dei social network continua ad eruttare sciocchezze. Certo, temi delicatissimi ce ne sono tanti. Oltre al lavoro, ne segnalo due: le famiglie, che, nel combinato disposto di ripresa produttiva e chiusura delle scuole, rischiano di finire strangolate. E poi appunto la scuola, con studenti a rischio di borseggio del diritto allo studio e istituti (soprattutto paritari) a rischio di bancarotta. Questioni, ripeto, delicatissime. Ma non fino al punto da farci dire che, allora, il nostro insistere per tornare a dir Messa sia orpello, sfizio o privilegio. Senza Messa, lo ripetiamo, non c’è più cristianesimo. E allora – anziché caricare l’archibugio della crociata, né invitare i vescovi al silenzio – occorre concentrarsi su un altro punto, e ribadirlo con forza. Questo: la libertà religiosa (e al suo interno la libertà di culto) non è un bene privato, ma pubblico. L’errore più marchiano del Decreto governativo del 26 aprile non è tanto il mancato allentamento dei vincoli (a parte una non ben chiara concessione sui riti funebri) – sul tema si può e si deve tornare a discutere (fra l’altro: anche per gli islamici che hanno iniziato il Ramadan…) –, quanto la rappresentazione (evidente nel Decreto) del culto religioso come aspetto meramente privato. Al pari dell’andare dall’estetista, o del vendere caldarroste. E che per di più – sembra di intuire dal Decreto –, a differenza dell’estetista e del venditore di caldarroste, manco fa crescere il Pil nazionale. Si sbaglia a pensare così. Ma si sbaglia non per un prurito ecclesiastico di tempi andati, bensì per il senso stesso dello Stato laico liberale. A meno di ritornare indietro nel tempo – al cieco e bolso vetero-laicismo ottocentesco, o giù di lì (che qualcuno peraltro non ha mai abbandonato) –, dobbiamo ricordare che il senso religioso è una dimensione pubblica, e non meramente privata, della persona umana; e che quindi «la vita pubblica viene impoverita di motivazioni» (n. 56 della Caritas in veritate, da rileggere per intero), se i cittadini non vengono messi in condizione di esprimere la loro fede. Il diritto di culto, quindi, non è uno sfizio concesso a quattro ciarlatani urlanti, ma è parte integrante della costituzione laica dello Stato liberale e democratico. E’ un valore pubblico, costituzionale (insieme, ovviamente, alla salute e al lavoro), perché si radica in quella eminente dignità della persona umana che è appunto il fulcro delle moderne Costituzioni. È chiaro allora che la Chiesa italiana mica poteva stare zitta di fronte alle zero aperture del Decreto governativo. La Messa, Signor Presidente del Consiglio – e Lei in quanto cattolico lo sa benissimo – non è un affare privato. E se guardiamo bene, nella misura in cui costituisce il nutrimento simbolico di tutta l’istituzione ecclesiale (compresi quindi gli oratori, le scuole, la tutela del patrimonio artistico, le mense dei poveri), contribuisce anche sostanziosamente a incrementare il Pil. L’auspicio è che si superino anguste ristrettezze di visuale da parte governativa, insieme a impuntature sanfediste del tutto fuori tempo, e si torni a discutere pacatamente e costruttivamente sul possibile da farsi per permettere ai cittadini italiani l’esercizio di un loro diritto in condizioni di sicurezza sanitaria.
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