Da qualche tempo a questa parte, chissà come mai, ci sentiamo tutti quanti in dovere di dire qualcosa di particolarmente intelligente sulla scomparsa di un personaggio celebre.
In verità, è una pulsione che accompagna l’essere umano da sempre, ma che si è via via ingigantita con l’affermarsi del predominio planetario della microborghesia impiegatizia deideologizzata e deresponsabilizzata - e non è questione di soldi, perché, in fondo, i milionari e quelli che faticano ad arrivare a fine mese la pensano allo stesso modo, possiedono le stesse coordinate culturali, aspirano alle stesse cose - ed è poi esplosa con la dittatura dei social. E ogni volta è un tassello in più. Inesorabile.
L’ultima riprova la stiamo vivendo in questi giorni con la morte della regina Elisabetta, uno dei simboli più consolidati della cultura pop, del costume gossipparo della nostra era, grazie al fatto di essere radicato in un istituto plurisecolare e di aver attraversato con la sua vita lunghissima intere epoche del Novecento e dell’inizio del nuovo millennio. Dal momento del decesso ad ora, e andrà avanti per giorni, con i funerali e l’incoronazione del principe Carlo, è stato un delirio. Milioni e milioni di messaggi, post, tweet, video e foto su ogni profilo personale, ma anche istituzionale, del pianeta. Un exploit probabilmente avviato a battere tutti i record.
Ma il punto, se vogliamo ben vedere, non è tanto questo. Il punto è un altro, che, in fondo, ha ben poco a vedere con il soggetto della valanga mediatica. Il punto siamo noi. Ora, a chiunque abbia il coraggio di armarsi di pazienza e di inquietante istinto masochistico, è consigliato passare qualche ora navigando sui social più popolari, così, a casaccio, per farsi un’idea di quello che accade sulla rete e, soprattutto, nelle nostre menti malate. Ragazzi, questi non sono lettori, questi non sono cittadini, questi non sono esseri umani attenti all’attualità, ansiosi di sapere, di conoscere, di comunicare, di condividere esperienze esistenziali formative e consci degli eventi simbolo che caratterizzano ogni epoca e che sono destinati a forgiare il sentire comune di una generazione e bla bla bla. No. Questa è la famiglia Addams. A un certo punto, al millesimo post enfatico, iperbolico e generalmente sgrammaticato, ti aspetti che spunti fuori La Mano e poi Lurch che dice: “Chiamato?”.
E’ un mondo di mostri. Ci sono quelli che non sanno evidentemente una mazza della monarchia inglese, della storia della Gran Bretagna, dei veri poteri dei sovrani e dicono cose a caso su Diana e Filippo ed Enrico VIII e Anna Bolena e Braveheart, che però era un’altra cosa, e Maria Antonietta, che però pure lei era un’altra cosa, e i Beatles e il Manchester City e il te delle cinque e la caccia alla volpe. Poi, ci sono quelli che loro sì che la conoscono come le loro tasche la Londra reale e che senza Londra non possono vivere e hanno relazioni e frequentano questo e quello e quell’altro e naturalmente aborrono i tour turistici per italiani medi baffo nero mandolino e nell’aria c’è profumo di Ascot e nell’aria c’è profumo di Chelsea Flower Show e nell’aria c’è profumo di Oxford e Cambridge. E poi anche quelli che adesso cosa succederà e dove andremo a finire, signora mia, e come faremo ad affrontare la pandemia e l’Ucraina e l’inflazione e la bolletta del gas senza il faro, la luce, il riferimento culturale ed esistenziale che tutti rassicurava, tutti consolava, tutti incoraggiava e che vuoto incolmabile e che strazio e cuoricini e lacrimucce e faccini piangenti e sconsolati e riposa in pace e sarai sempre con noi e non ci abbandonare e poesie e rime e pensieri alati: ogni aggettivo una zaffata di miele, ogni superlativo una colata di melassa, ogni singhiozzo una carie ai denti.
Poi, le vedove inconsolabili di Diana, evento dirimente dopo il quale tutta la vicenda è diventata in via definitiva pura soap opera, una chiassosa, grottesca, ridicola, anche se con alcuni tratti tragici, soap opera per casalinghe di Voghera, ma anche per casalinghi di Tortona, e vai con gli intrecci, i retroscena, i complotti, gli odi manichei, i livori, i rancori, gli umori, gli odori, i tradimenti, gli avvelenamenti, le pugnalate, i balli di corte alla Anna Karenina o alla Madame Bovary, veri topos della letteratura dell’Ottocento adattati alla culturetta farisea e filistea di noi patetici fantozzi e fantozze del mondo globalizzato.
E infine, i più pericolosi, i più devastanti per se stessi e per gli altri. Quelli che approfittano del tragico evento iniziando a parlare del notevole personaggio che ora non c’è più e quanto era bravo e quanto era bello eccetera eccetera, ma che rapidamente emarginano il notevole personaggio che ora non c’è più per passare rapidamente a parlare di sé, di se stessi, di se stessi medesimi e io e io e io e io. Io e la regina, io e il cappellino della regina, io e le tazze della regina, io che mi faccio un selfie con la regina anche se lei è a dodici chilometri di distanza, io che ho tanto sofferto per questa perdita, io che però ho raccolto la sua eredità morale, io che affronto la vita con coraggio grazie al suo insegnamento, io che l’ho capita nel profondo prima e meglio degli altri.
E non c’è verso di fermarci, noi pazzi scatenati, noi frustrati, noi insopportabili - e solissimi - disperati. Milioni e milioni di post e video e reel che sembra parlino della regina e invece no, della regina, in realtà, non gliene importa nulla - la regina chi? – quelle sono solo angoscianti urla nel silenzio, nel nulla di un cielo vuoto, nel chiarore di una luna indifferente, strazianti richieste di attenzione, perché anche noi vogliamo esistere e anche la nostra vita è bella e interessante e piena di felicità, amore e avventure come quella della regina, e forse anche di più, anche la nostra vita ha un senso e tutti su Facebook e Instagram lo devono sapere, almeno un attimo prima che ci tocchi sparire all’improvviso, come fantasmi al canto del gallo.
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