Al contrario di Mina che cantava “non gioco più, me ne vado”, Giorgia Meloni ha annunciato che resterà al suo posto anche in caso di sconfitta nel referendum sul premierato, riforma che ha fortissimamente voluto. Subito è scattato il paragone con Matteo Renzi che invece si era intestato la consultazione su un corposo pacchetto di riforme per uscirne con le ossa rotte e dimettersi da palazzo Chigi senza più riprendersi, dal punto di vista politico, da quel colpo. Proprio partendo da questo esempio si può capire la scelta di Meloni che, però, matura in condizioni molto diverse rispetto a quelle in cui, nel 2016, si trovava l’attuale leader di Italia Viva.
In primis, la posizione di Giorgia a palazzo Chigi è figlia di una netta vittoria elettorale. E non è colpa sua se, l’andazzo generale è quello di aver costruito (anche con il contributo di chi avversa la riforma) un premierato di fatto con l’inserimento del nome del leader, quasi sempre affiancato dalla dicitura “presidente”.
Renzi era approdato alla guida del governo dopo aver scalato la segreteria del Pd con le primarie e sfrattato l’allora presidente del Consiglio, Enrico Letta (tutti ricordano la freddezza di quest’ultimo durante il passaggio di consegne). Lo stesso Letta era stato scelto non sulla base dell’esito elettorale, ma in seguito ad accordi politici. Renzi nel suo legarsi mani e piedi al referendum aveva sottovalutato o ignorato i tanti nemici interni e non solo che si erano poi opposti al “sì” proprio per farlo fuori, a prescindere dalla loro opinione sulle riforme.
Del resto, l’allora leader del Pd arrivava dal sonante 40% ottenuto alle elezioni europee di dieci anni fa.
Di certo, Giorgia Meloni, che pure di avversari ne ha molti di meno, ha fatto quelle dichiarazioni, non tanto e non solo perché teme una sconfitta al referendum sul premierato – non improbabile, visto che la coalizione di centrodestra che sostiene la riforma, e non tutta con grande entusiasmo, è maggioritaria in Parlamento, ma non nel paese – ma anche per difendere il provvedimento tenendolo slegato dalla sua persona e dalla sua sorte politica. Il presidente del Consiglio ha compreso che il referendum sarà inevitabile perché il premierato, nella sua attuale formulazione, non può trovare in Parlamento la maggioranza dei due terzi prevista dalla consultazione per evitare la consultazione popolare.
Perciò anziché contrastarla sul metodo, le opposizioni farebbero meglio a entrare a piedi uniti nel merito di un provvedimento che, al di là di quanto detto sopra sul “premierato di fatto” già in essere, contiene molti punti problematici, tra cui soprattutto il ridimensionamento del ruolo e dei poteri del capo dello Stato che resta l’istituzione più apprezzata dai cittadini anche a prescindere dalle personalità che la interpretano, proprio per la sua capacità di elevarsi al di sopra della politica di parte.
Cosa che non sarebbe possibile per un presidente del Consiglio eletto sì dal popolo, ma candidato solo da una o più forze politiche e perciò costretto a rappresentarne gli interessi. Meglio sarebbe, a questo punto, uscire dall’ambiguità e puntare sul semipresidenzialismo e sul presidenzialismo che, in fondo, è ciò che anche Meloni preferirebbe, ma che non potrà mai ottenere un sufficiente consenso politico.
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