Pensa un po’ che la nemesi del calcio arriva dal mondiale più controverso, assurdo, contestato, sporcato e lunare, giocato in un Paese privo di ogni tradizione calcistica, d’inverno e con l’aria condizionata e i campionati nazionali spezzati in due come grissini. È stato un mondiale, all’insegna del bel calcio, con i passaggi orizzontali finalmente in minoranza e con la finale avvincente e spettacolare.
L’epilogo è stata una faccenda tra numeri “10”, Lionel Messi e Kylian Mbappé. E l’ha vinta l’erede del più numero “10” di tutti, Diego Armando Maradona, tante volte evocato nel cammino da crescendo rossiniano della sua Argentina. L’altro ha fatto più di quello che era nelle sue possibilità per evitare un epilogo che forse era scritto nel grande libro del destino. A volte, quest’ultimo si gioca non solo a dadi, ma anche con cinque rigori.
La maglia numero 10 è un emblema, anzi forse è “l’emblema” del calcio tradizionale, che era solo un gioco prima di diventare uno show e un business. Quello appunto della numerazione che stabiliva anche i ruoli e le gerarchie. L’uno era il portiere, il cinque lo stopper, il sette l’ala destra, il quattro il mediano di spinta. Il 10 era la mezzala sinistra, ma anche il più talentuoso. Un numero che in Italia abbiamo visto, tra gli altri sulle maglie di Gianni Rivera (prima per restare in rossonero, anche su quella di Juan Alberto Schiaffino, uno di quelli del Maracanazo uruguaiano che fece piangere il Brasile nei mondiali del 1950), il nostro 10 più 10 di tutti, Giancarlo Antognoni, Roberto Baggio e Gianfranco Zola: tutti fuoriclasse. Anche i 10 “minori”, alla Gianfranco Matteoli tanto per fare un esempio dovevano avere piedi raffinati. Poi con l’avvento dei numeri della tombola e più (dall’1 al 99) si è persa questa peculiarità. Fino ai mondiali in Qatar, appunto.
E la storia dei “10” ai mondiali, che si intreccia più con quello appena concluso nel passaggio tra Maradona e Messi, passa naturalmente da Pelè, agli italiani già citati, a Puskas, emblema dell’Ungheria splendida e sventurata del 1954 e così via.
Insomma, nella maniera forse più inaspettata, questo mondiale che avrebbe rischiato di fare divorziare tanti appassionati dal pallone (ammesso che questo sia possibile), potrebbe essere quello della riconciliazione e della speranza. La vittoria dell’Argentina lo rende quasi mistico. Impossibile non guardare lassù e non immaginare a un riscatto di Diego Maradona, il cui ultimo mondiale giocato fu una corona di spine, tra cui il divieto della Fifa di indossare proprio il suo numero dieci.
Quante similitudini tra questi campioni albicelesti e quelli del 1986. Anche lì fu il numero 10, Diego ca va san dire, a trascinare una squadra mediocre al successo in Messico, anche grazie alla celebre “mano di Dio”, il gol più disonesto nella storia di un campionato del mondo abbinato a quello più bello nella stessa partita tra Argentina e Inghilterra.
Stavolta è toccato a Leo prendere per mano una squadra stranita e sballata dopo il ko iniziale con l’Arabia che sembrava il preludio a un mesto ritorno nelle pampas. Certo, questi sono un po’ meglio di quelli di 36 anni fa, ma in Qatar c’erano gruppi più quotati. “Il calcio argentino non finisce con me”, aveva detto Diego Armando Maradona nel giorno in cui si è presentato a salutare a centrocampo per l’ultima volta. E aveva ragione. Da ieri, dall’emirato, forse abbiamo capito che il calcio non finirà mai. Almeno finché ci saranno i numeri “dieci”. Di certo resterà Kylian Mbappé, a cui l’anagrafe può concedere una rivincita, magari solo virtuale, con Messi che ha trovato finalmente la sua giusta consacrazione.
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