L’emergenza ci costerà un sacco di soldi. Un “buco” del Pil molto più grande di quello che abbiamo sperimentato nella crisi precedente, che già ci era parso insostenibile.
Una profonda recessione con effetti devastanti sui mezzi di sussistenza di milioni di persone. Che ridurrà il benessere di molti più milioni.
Remo Ruffini e Aram Manoukian, hanno, su questo giornale, detto parole importanti sulle scelte più sagge da fare per far ripartire il Paese. Certo, come dice Remo Ruffini, il “come” se ne uscirà fuori dipenderà molto dal “quando”.
Ma l’emergenza attuale non è come un pit-stop di un gran premio di Formula 1: stiamo fermi il meno possibile, facciamo nel minor tempo possibile tutte le riparazioni necessarie alla macchina e ripartiamo per correre la stessa corsa di prima, magari andando più veloci per recuperare il tempo perduto.
Non sarà così. La pandemia “è una tragedia umana di proporzioni bibliche” (Mario Draghi). E le tragedie determinano profonde discontinuità.Quanto sta accadendo mette in discussione alla radice il nostro modello di sviluppo e di convivenza, la visione del mondo che lo ha generato e sostenuto. Le idee che ce lo hanno fatto scambiare per il migliore dei mondi possibili.
È il cuore del messaggio lanciato da Papa Francesco qualche giorno fa. «Siamo andati avanti a tutta velocità, sentendoci forti e capaci in tutto. Avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta. Non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato».
Per questo credo che il “quando ne usciremo” dipenda strettamente dal “come” decideremo di uscirne. Da quali strade abbandoneremo e da quali cominceremo a frequentare, capendo finalmente che è impossibile pensare «di rimanere sempre sani in un mondo malato» (Papa Francesco).
Alcune cose mi paiono evidenti. Non sono le sole, ma possono servire per iniziare un ragionamento.
1. «La società non esiste. Esistono solo persone e famiglie» (Margareth Thatcher). Di fronte al virus e al rischio del contagio gli individui da soli non possono far nulla e gli stessi governi hanno le armi spuntate. Non siamo individui connessi solo dal grande mercato capitalistico globale e in perenne competizione tra di noi, ma soggetti che per sopravvivere hanno bisogno degli altri. Vale per le persone, per le imprese, per le comunità.
Senza solidarietà e responsabilità diffusa per il destino comune nessun tipo di efficienza economica o tecnica ci aiuterà. È il contrario dell’ideologia dell’individualismo e della ricerca del benessere narcisistico che abbiamo praticato per anni. «Non siamo autosufficienti, da soli; da soli affondiamo» (Papa Francesco). Sono le relazioni sociali e con l’ambiente che ci circonda le cose che fanno veramente la differenza. Signora Thatcher avremo bisogno di “più società”: saranno i legami di comunità, la coesione sociale, il livello e la qualità dei “beni comuni” a farci sopravvivere e a aiutarci a costruire il futuro.
2. “Togliete le mani dalle tasche degli italiani”. Per anni abbiamo tutti strepitato contro la tassazione. La narrazione dominante l’ha trasformata in un furto, in una pesante zavorra per le imprese, i mercati, la libertà degli individui. Abbiamo accettato miliardi di evasione, considerando furbi coloro che ci riuscivano.E, a livello delle imprese, nobilitato l’elusione, chiamandola “tax planning”.
Oggi ci accorgiamo che solo dalla tassazione – e, ovviamente, dal suo corretto utilizzo – dipendono le “infrastrutture” senza le quali la nostra vita non funziona. I sistemi sanitari. La ricerca di base come la banda larga.
Sarà impossibile uscirne senza ripensare il ruolo e il fine dei sistemi di tassazione.Rendendoli più equi, certo, ma soprattutto più progressivi e più inflessibili. Spostando l’imposizione dal lavoro alla rendita e ai grandi patrimoni. Riducendo il campo da gioco ai “furbi” e “furbetti” e ai loro consulenti.Cambiando in profondità una narrazione sbagliata.
3. “Meno Stato più Mercato”. Per lunghi anni abbiamo assistito - silenziosi o plaudenti, a seconda dei punti di vista - ai “tagli di spesa” nei settori cruciali per la nostra vita, a cominciare da sanità e istruzione.Oggi riscopriamo che i “servizi pubblici” non sono “costi superflui” da tagliare in nome dell’efficienza. Ma servizi essenziali dalla cui qualità dipende la nostra vita e il funzionamento stesso delle nostre economie.Nessun sistema economico può funzionare bene senza un sistema efficiente di servizi pubblici. Senza una sanità pubblica (per tutti) adeguata all’epoca che viviamo. Senza scuole eccellenti. Ed eccellenti per tutti.
Servizi pubblici a cui garantire universalità di accesso e per la cui erogazione sarà decisivo il contributo di imprese mutualistiche, sociali, non orientate al profitto ma alla cura dei “beni comuni”.Dovremo necessariamente aumentare il ruolo dello Stato in molti settori.A cominciare proprio da sanità, istruzione, ricerca, infrastrutture, fisiche e digitale. Rivalutare l’importanza della spesa e degli investimenti pubblici per la vita e la tenuta delle nostre comunità. Altro che “pareggio di bilancio in Costituzione”. Servirà organizzarsi per chiedere agli Stati di spendere. Di spendere senza alimentare una burocrazia autoreferenziale ed inefficiente – anzi riducendone il peso - ma attivando le risorse migliori della società civile organizzata.Di spendere per accompagnare la transizione dei sistemi produttivi.Di spendere bene, ma di spendere tanto. Di farlo a debito.
4. “La meritocrazia, innanzitutto”. A partire da qui, abbiamo prodotto nel nostro Paese e nell’occidente un livello di diseguaglianze economiche insostenibile. Incompatibile con il nostro essere una comunità.Non è normale che il 5% più ricco degli italiani detenga il 41% della ricchezza nazionale. Più di quella detenuta dal 50% della popolazione più povera. E che mentre la prima continua a crescere la seconda si erode progressivamente e inesorabilmente.O che l’1% degli italiani più ricchi detenga 17 volte la ricchezza dei 12 milioni di italiani più poveri. Lo abbiamo sempre saputo.In questi giorni la nostra sopravvivenza è garantita da infermieri e addetti dei supermercati, da badanti e operatori sociali, da addetti alle pulizie, trasportatori e lavoratori della logistica o della filiera agroalimentare e dei rifiuti: li chiamiamo “eroi”, ma li paghiamo un migliaio di euro al mese, quando va bene.Celebriamo le “eccellenze” della nostra economia, ma senza il lavoro di coloro che “non eccellono” non funzionerebbe proprio nulla.La ricostruzione del Paese non può che cominciare da profondi interventi di redistribuzione dei redditi. Intelligenti ed inclusivi, non clientelari, certo. Ma profondi.
È giustizia, non assistenzialismo. E alla lunga conviene a tutti.Perché la tenuta della catena dipende sempre e solo dalla forza dell’anello più debole.
Mi fermo, qui. Anche se si potrebbe continuare a lungo.Dopo questa lunga primavera saremo chiamati ad una sfida gigantesca che riguarda tutti gli ambiti della nostra vita economica e sociale: ripensare il modo in cui produciamo e consumiamo, riconvertire le produzioni, accorciare le filiere, regolare diversamente i mercati finanziari, ripensare gli standard contabili e creditizi, lanciare un grande piano di conversione ecologica di tutte le attività umane…. E tanto altro ancora. Farlo a partire dalle idee sbagliate non ci aiuterebbe
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