La pesca che cancella i veri problemi

Un validissimo argomento a favore della tesi che sostiene la necessità dell’estinzione del genere umano in Italia - possibilmente in modo non rapido e, soprattutto, non indolore - è la scaletta degli argomenti che hanno appassionato l’opinione pubblica nelle ultime settimane: il generale Vannacci, il flop del “Mercante in fiera” di Pino Insegno, il video contro Osimhen su TikTok e, ultimo arrivato, lo spot della bambina e la pesca.

Ora, i primi tre in un qualsiasi paese normale non sottosviluppato, non sudamericano e non in balia dell’analfabetismo funzionale sarebbero stati archiviati nel giro di pochi minuti con un ecumenico chissenefrega. Il quarto, invece, che da giorni sta imperversando in ogni pertugio della comunicazione, arrivando fino a strappare una pensosa dichiarazione al presidente del consiglio - giusto per far capire il livello… - merita invece un supplemento di indagine. Anche perché, quando si arriva a dire, a scrivere e a sottoscrivere che lo spot di un celebre marchio della grande distribuzione sta dividendo l’Italia, vuol dire che siamo al di là della soglia.

Il filmato, ormai celeberrimo, lo conoscono tutti e racconta di una bambina che, durante la spesa al supermercato, chiede alla mamma di comprarle una pesca e poi, a fine giornata, quando viene a prenderla il papà separato, gliela regala facendogli credere che sia un dono della madre. Una bugia innocente grazie alla quale la bimba cerca di riappacificare i genitori. E questo è quanto.

Il prodotto è ben fatto, ben girato, sottilmente ricattatorio a livello subliminale, perché gli autori, con notevole perizia, hanno fatto vibrare le corde dei telespettatori: i tanti figli di separati, ma anche i tanti, i tantissimi, davvero tantissimi figli di coppie unite solo in apparenza, solo pro forma, perché sono milioni gli adulti che oggi ricordano con un sottilissimo filo di angoscia, di smarrimento e spesso di puro distillato di dolore l’immagine dei loro genitori lontani, distanti, assenti, annoiati, aridi, litigiosi, rancorosi, sfioriti e avviliti. Tutto il contrario di quella bella famiglia unita e ricca di amore, conforto e protezione che ogni bambino cerca - l’amore di un bimbo non è mai oblativo, ha sempre bisogno di risposte - e che ogni adulto avrebbe voluto vivere. Ma non è sempre così, come noto. Uno spot toccante e molto, molto furbo, che punta a colpire le persone in un punto indifeso. Operazione commerciale - e anche culturale - di grande livello. Bravi.

E sarebbe finita qua, se non fossimo nel Congo Belga, con tutto il rispetto per il Congo Belga. Qui invece, visto che siamo nel Congo Belga, è partito il circo Barnum. Tra politici, sociologi, psicologi, antropologi, colonnelli, marescialli, preti, nani, ballerine, opinioniste, cubiste, influencer, fattucchiere e mangiatori di spade, si è scatenato un tourbillon di aforismi e motti ed epigrafi e sentenze e parole definitive, parole di fuoco, parole come pietre sulla pubblicità della pesca. Lo spot è bello o lo spot è brutto, finalmente un’orgogliosa difesa della sana famiglia tradizionale o la vergogna dell’ignobile famiglia tradizionale, la bambina cerca l’amore o la bambina è un’egoista, basta con la confusione dei ruoli o vile attacco al libero istituto del divorzio, qui tornano in auge i veri sentimenti o qui si specula sul dolore, il bravo governo di destra che dà voce alla maggioranza silenziosa o il cattivo governo fascista che impone pure gli spot su Dio, Patria e Famiglia, l’opposizione frigna solo perché va a fare la spesa da quell’altro grande marchio che però è dei comunisti o la maggioranza si commuove solo perché la bimba è italiana e invece se ne frega dei bimbi sui barconi. E poi, perché nello spot non c’è neanche un nero? E perché non c’è un gay? E neppure un trans? E perché, pesca o non pesca, l’amante resta sempre dentro l’armadio? E perché proprio una pesca, che adesso è fuori stagione? E perché non l’hanno messa nel sacchetto e non l’hanno prezzata? E a chi giova? E chi c’è dietro? E chi comanda?

Sono tre giorni che si vive nel delirio, al punto da far fare la figura della fuoriclasse alla povera Schlein, che tutti trattano come una macchietta, ma che è stata l’unica a dire una cosa di buon senso: “Lo spot non l’ho visto”.

Ma forse non può che essere così, forse è inevitabile, è addirittura “giusto” che sia così. Gli argomenti seri, gli argomenti veri, la realtà effettuale con tutte le sue difficoltà, i suoi compromessi e le sue miserie è troppo dura da affrontare.

Pensare al disastro della sanità, al declino della scuola o della natalità, all’inflazione o all’immigrazione è troppo impegnativo, troppo stressante, troppo angosciante. E allora cosa fai? O la butti in caciara - “ Basta!”, “La gente non ne può più!”, “Dagli al negro!”, “Dagli al fascista!”, “Dagli al comunista!” - espediente tipico non solo dell’uomo della strada, ma anche dei più raffinati statisti che governano la repubblica delle banane e che, a ondate successive, rastrellano messe sterminate di voti da noi poveri allocchi. Oppure ti estranei, ti disinteressi, insomma, come diceva quello là, te ne freghi, sperando nello stellone - “Sanità pubblica? Cercate di stare bene…” - oppure concentrandoti sulle sciocchezze, sulle stupidaggini, sulle cretinate digitali che riempiono i vuoti dell’anima - e del cervello - e offrono la facile soluzione ai tuoi problemi e alle tue frustrazioni.

Un bel post frizzante sul generale che dice quello che pensa l’uomo qualunque, una crassa sghignazzata sull’attore di serie B in imbarazzante declino o sul bomber che non vede più la porta o un pensierino caramelloso scopiazzato da Wikipedia sulla bambina con la pesca e sui genitori divorziati e il gioco è fatto. La giornata è passata, anche oggi non hai combinato niente di buono, ma se vai in rete troverai senz’altro qualcuno a cui addossare la colpa. Perché alla fine, in questo paese di poeti, navigatori e critici televisivi, è sempre colpa di qualcun altro.

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