La politica cabaret
mentre crolla tutto

Noi aspettiamo qualcosa di terribile. E non succede niente. E continua a non succedere niente.

Chissà quando è accaduto. Chissà qual è il momento preciso, esatto, registrabile nel quale in questo povero paese la politica si è arresa, si è spogliata del suo vestito, della sua corazza, dei suoi principi ed è diventata intrattenimento. Avanspettacolo. Circo. Sceneggiata. Forse quando sono finite (per fortuna) le ideologie. Forse quando è finito il Novecento, che del trionfo dell’ideologia è stato padre, madre e maestro. Forse quando è finita la borghesia studiante, pensante e senziente, sostituita da un ceto medio amorfo, ignorante, consumista e conformista. Forse quando l’informazione ha abbandonato ogni principio di rigore e indipendenza per trasformarsi nell’utile - e molto più spesso inutile - idiota del capetto del quartiere o del padrone delle ferriere, servo, maggiordomo e leccapiedi della guerra per bande che da almeno trent’anni avvelena la nazione con l’ottimo risultato che all’informazione non crede più nessuno. E per quale motivo dovresti crederci se il giorno prima sai già per filo e per segno cosa scriveranno il giorno dopo?

Sono tempi interessanti, nel senso della celebre maledizione cinese, quelli così avvincenti da leggere nei libri di storia qualche secolo dopo, ma così tremendi da vivere per i contemporanei quando arrivano all’improvviso le rivoluzioni, i crolli delle civiltà, i cambi di paradigma. E’ quello il momento nel quale ti si squaderna sotto gli occhi tutta la pochezza, anzi, tutta la nullità di quelli che dovrebbero prendere le decisioni importanti. Le decisioni giuste. Le decisioni decisive.

L’Europa è al crepuscolo. O meglio, tutto l’Occidente è al crepuscolo, compresi gli Stati Uniti per come li abbiamo sempre tradizionalmente intesi e che ben poco hanno a che fare, piaccia o non piaccia, con quello che stanno diventando. E mentre fuori accadono rivolgimenti profondissimi in campo geopolitico, economico e tecnologico (Ucraina, energia, intelligenza artificiale), la nostra politichetta da quattro soldi resta impaludata nei suoi riti ridicoli, oltre che inutili, che nulla hanno a che fare con la realtà, che nulla capiscono della realtà e che nulla risolvono dei temi proposti dalla realtà. La sfiducia alla ministra Santanchè non è politica: è intrattenimento, visto che negli ultimi trent’anni le sfiducie non sono mai passate e tutti lo sanno. L’attacco, rigorosamente via social, del premier alla magistratura non è politica: è intrattenimento, così come è intrattenimento la procedura avviata dalla magistratura nei confronti del premier per il caso Almasri. L’allarme della sinistra sul ritorno del fascismo non è politica: è intrattenimento, tra l’altro particolarmente spassoso. L’apertura di un Cpr in Albania, perché così diamo l’impressione di spedire i “negri” via dall’Italia, non è politica: è intrattenimento, inutile e costoso. E potremmo andare avanti con decine di esempi, di destra, di sinistra e pure di centro.

E’ tutto un penoso e patetico piantare bandierine, sventolare slogan demagogici e postare sui social cuoricini sagittabondi per i fan o grottesche prove di forza per gli ultras da parte di esecutivi che non sono manco in grado di mettere al loro posto tassisti e balneari e che poi li senti trombonare sui massimi sistemi della riforma del fisco (risate!), della scuola (risate!!) e della sanità (risate!!!).

Quanto sarebbe bello che un premier, un premier qualsiasi, avesse il coraggio di dire che l’unico modo per risolvere la devastante crisi energetica che fa chiudere le aziende e mandare a picco le famiglie è la reintroduzione del nucleare. Si può essere d’accordo o meno, ma sarebbe una scelta di campo netta, seria, onesta. Quanto sarebbe bello che un premier, un premier qualsiasi, rimettesse al centro dell’agenda la cultura del lavoro, mentre invece negli ultimi vent’anni destra, centro e sinistra, tutti quanti perfettamente allineati, hanno messo in opera una guerra geometrica e pianificata al lavoro, perché il lavoro è brutto, fa schifo, è il male, è un disvalore da cui affrancarsi prima possibile. E allora vai con le pensioni e le prepensioni e le sovvenzioni e le elargizioni e i meravigliosi redditi di cittadinanza. E adesso eccoci qua. Dei veri statisti, complimenti.

Qui viene giù tutto. E non succede niente. E continua a non succedere niente. Nell’ultimo mese del 2024 la produzione industriale è scesa del 3,1% rispetto a novembre, ma del 7,1% su base annua. Un crollo che fa paura. Anzi, che dovrebbe far paura, se questi non fossero troppo impegnati a ponzare sul terzo mandato o a dibattere se Simone Cristicchi piace più a Giorgia o a Elly. Siamo al ventitreesimo mese consecutivo di calo, negli ultimi due anni l’Italia ha perso il 5.5% di produzione industriale, come le aziende dei nostri territori sanno fin troppo bene, con contrazioni a doppia cifra per automotive, tessile, metallurgia, macchinari. Ed è infantile sbandierare i numeri da record dell’occupazione, perché l’incremento è stato superiore all’aumento del Pil (segno di un calo della produttività e di uno spostamento verso settori a minore valore aggiunto) e quindi bassa produttività, basso lavoro, basso stipendio: roba da paese in via di sviluppo, non da grande potenza industriale. Certo, è un trend che viene da lontano, ovviamente determinato e interconnesso con tutto quello che accade nel mondo, ma che un governo ha il dovere di affrontare, allestendo una strategia che invece non si vede né sulla politica industriale né su quella commerciale.

Ma siamo tornati al punto. Nel momento in cui la politica diventa intrattenimento è magari efficacissima nel conquistare il consenso nel popolo bue, ma poi quando deve governare - e governare è faticoso, è noioso, è oneroso - non sa che fare. Spara due battute, ulula “al lupo al lupo” e spera di cavarsela così, mentre il Nuovo Mondo avanza a rapidi passi e la repubblica delle banane, ovviamente, non lo vede arrivare.

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