Una delle grandi leggi non scritte della politica è che ogni vuoto si riempie. E negli ultimi vent’anni almeno, la crescente carenza di capacità propositiva e di elaborazione dei partiti, dopo la fine del modello tradizionale di questi ultimi, è sempre stata colmata dalla presidenza della Repubblica, a prescindere dalla figura che la rappresenta.
Un vuoto con il Colle intorno. Nonostante, negli anni, sia anche stato lambito dagli scandali (basti ricordare quello, risoltosi in una velenosa bolla di sapone, del caso Lochkeed ai tempi di Giovanni Leoni o la questione dei fondi neri del Sisde che portò Oscar Luigi Scalfaro a pronunciare un icastico “io non ci sto” a reti unificate), il Quirinale resta un punto di riferimento della fiducia degli italiani. Anche per demerito degli altri. Sarà perché, da Pertini in avanti, chi ha interpretato l’istituzione presidenziale, ha abbandonato il tradizionale e sonnacchioso stile notarile pubblico dei predecessori per avviare la lunga stagione delle “esternazioni” ,il cui livello volumetrico varia a seconda del protagonista ma resta una costante.
L’attuale capo dello Stato, Sergio Mattarella, non ama alzare la voce. Lo ha fatto, perché lo riteneva necessario, solo in occasione dello scomposto affondo della presidente della Bce, Christine Lagarde, contro i conti dell’Italia nel pieno della pandemia. Ed è servito a mettere al passo la custode dei conti dell’Unione europea.
Alla vigilia di questo strano 2 Giugno, Festa della Repubblica, Mattarella si è sentito in dovere di richiamare all’ordine le forze politiche sociali, con l’invito, in sostanza, a piantarla con le liti per la difesa dell’orticello e a mettere giù il crapone per lavorare insieme con l’obiettivo di riportare in sicurezza un paese in cui la voglia di normalità rischia di viaggiare pericolosamente sull’orlo di una crisi di nervi. Come sempre l’appello del Quirinale sarà formalmente apprezzato e sostanzialmente inascoltato dagli interlocutori, ma recepito in maniera favorevole dai cittadini che continueranno ad avere fiducia nel primo di loro. L’esempio più clamoroso in questo senso, è quello del bis a cui fu costretto, unico nella storia repubblicana, Giorgio Napolitano. Tirato per la giacca dalle forze politiche che non riuscivano a trovare uno straccio d’accordo sul successore, il sosia di Re Umberto di Savoia accettò ma pretese un impegno concreto sulle riforme, condiviso al 100 per 100 e disatteso al 200.
Sarà per questo che la fiducia nel capo dello Stato è sempre quasi inversamente proporzionale a quella degli altri leader politici? Di certo il Quirinale, una reggia carica di storia e suggestioni che ha ospitato prima dei presidenti della Repubblica, papi e sovrani, deve esercitare una sorta di influenza positiva sui suoi inquilini dal 1948 a oggi. E una strana ricorrente caratteristica ha voluto che alla massima carica dello Stato non arrivassero mai, se non con un’eccezione fatta apposta per confermare la regola, leader di partito ma figure degne e preparate mai di primo piano sulla scena politica. Nella Dc, Alcide De Gasperi non fu quasi preso in considerazione, Amintore Fanfani ci provò senza successo. Aldo Moro forse ce l’avrebbe fatta senza la tragedia del suo assassinio da parte delle Brigate Rosse; Giulio Andreotti venne bloccato dal devastante attentato di mafia in cui persero la vita Giovanni Falcone, la moglie e la scorta e dalle rivalità con Arnaldo Forlani di cui fu vittima anche il “Coniglio Mannaro” come veniva definito il segretario dello Scudo Crociato di Pesaro forse anche colpito dal presunto anatema del marchigiano Pio IX, ultimo Papa Re a soggiornare al Quirinale che si dice non volesse più un altro corregionale in quelle stanze. In compenso la fu piazza del Gesù portò al Colle Giovanni Gronchi, Antonio Segni, Giovanni Leone, Francesco Cossiga, Oscar Luigi Scalfaro oltre al post Dc Mattarella. Nessuno di loro fu mai leader della Balena Bianca. Stesso discorso per il Psi. Pietro Nenni fu sempre un candidato di bandiera, Francesco De Martino venne utilizzato in funzione anti Fanfani. Bettino Craxi, presidenzialista dentro, accarezzò il sogno infranto da Mani Pulite. L’unico a farcela è stato il fumantino Sandro Pertini, emblema della Resistenza che però, nel partito, contava zero.
Il Pci, finché tale, resto vittima della “conventio ad excludendum”, poi il leader più carismatico post comunista, Massimo D’Alema, già pronto al trasloco nel palazzo, fu scalzato da Giorgio Napolitano, esponente della corrente malvista e minoritaria a Botteghe Oscure dei miglioristi, il cui leader storico comunque era Giorgio Amendola. L’unico capo di partito a mandare il messaggio di fine anno dallo studio della vetrata fu Giuseppe Saragat che però guidava una forza politica piccola che pure svolse un ruolo importante in chiave anti comunista, nelle fatali elezioni del 1948.
Anche senza grandi leader, il Quirinale ha sempre svolto, ancor più da Pertini in avanti ma anche prima, un ruolo centrale nella politica italiana fino a trasformarsi, per la crescente inefficacia delle forze politiche e della perdita di peso e ruolo delle istituzioni parlamentari, in un presidenzialismo di fatto, capace di interpretare al meglio l’elasticità dei poteri che la Costituzione gli consente. Un elemento su cui riflettere. Pensate se un domani, al Colle dovesse salire un Trump italiano.
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