La società al buio
sulla vita dei giovani

Qualche giorno prima della tragedia che ha falciato la sua vita e quella della sua inseparabile amica Gaia, Camilla Romagnoli, seduta a tavola aveva sollevato una domanda che riascoltata oggi mette i brividi: «Qual è il senso della vita?». Lo ha testimoniato la sorella Giorgia in lacrime, ieri ai funerali che si sono svolti alla presenza di centinaia di persone in una parrocchia romana. È una domanda che dice con quanta superficialità il mondo di oggi guardi ai giovani, eludendo le ragioni profonde che attraversano la loro vita e la loro coscienza. Sulla tragedia che ha insanguinato quel tratto di strada di Roma, lasciando sull’asfalto due ragazze e distruggendo la vita di chi era alla guida dell’auto, si sono scritte e lette tante cose, spesso dettate dal bisogno di trovare una spiegazione che non c’è, di scaricare tutto l’accaduto sulle spalle di un colpevole. «Brancoliamo nel buio», ha invece detto ieri coraggiosamente il parroco don Matteo Botto nell’omelia. «Siamo abituati a vivere tra tecnologie e innovazione eppure brancoliamo nel buio ed è quello su cui dobbiamo riflettere: su questa ora buia».

È un’osservazione profonda quella di don Matteo; un’osservazione da cui bisognerebbe avere il coraggio di non svicolare cercando risposte sociologiche. Davanti alla vita dei giovani oggi la nostra società si muove al buio, con l’incoscienza di chi aggira il problema accettando le ricette più facili e concessive. «Siamo tutti palloni gonfiati», ha ribadito con durezza don Matteo. «Siamo “liberi”. Ma cos’è la libertà? Guidare ubriachi o fatti? E questa la libertà? Ci sentiamo tutti padri eterni». Ha giustamente parlato alla prima persona plurale, perché se Paolo Genovese guidava in condizioni che non gli avrebbero permesso di stare al volante è perché in fondo abbiamo tutti tacitamente legittimato uno stile di vita così. Lui si è comportato in quel modo perché nella società del “palloni gonfiati” nessuno ha avuto il coraggio morale di dire che così non si fa. Tutt’al più ci fermiamo alla preoccupazione e all’ansia per i rischi a cui i ragazzi si scoprono con scelte come queste; ma sulle ragioni di questi atteggiamenti si chiude un occhio, in modo complice e irresponsabile.

È una sorta di resa educativa quella a cui ci troviamo di fronte: e i giovani sono le vere vittime di questa rinuncia della società adulta a rivestire il suo ruolo. Il caso delle droghe è emblematico: viviamo in una società che rivendica come espressione di libertà quello di coltivare cannabis sul terrazzo, e non ci si chiede mai, fuori dall’orticello del proprio egoismo, cosa questo determini. Che cosa ad esempio legittimi nella coscienza di un ragazzo o di una ragazza.

E magari intanto quel ragazzo o quella ragazza ci stanno facendo la stessa domanda di Camilla: «Qual è il senso della vita?». Ora ci sarà il processo; sarà stabilita l’esatta entità delle responsabilità di Paolo Genovese in ciò che è successo. Ma una tragedia come quella accaduta un sabato notte di pioggia in corso Francia a Roma non potrà mai trovare una sua giustizia con una sentenza. Davanti a quella tragedia si deve avere il coraggio e l’onestà di togliere il silenziatore dalla domanda profonda posta da Camilla, ma latente nella vita di ogni giovane. Non è certo una domanda per la quale valgano risposte semplici e preformulate. È una domanda davanti alla quale, dopo tanta latitanza, tutti balbettiamo e brancoliamo un po’ nel buio. Ma l’importante è smettere di eluderla e di fornire così scappatoie di comodo, grazie alle quali oggi un ragazzo si illude che una notte da sballo possa riempire di senso la vita.

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