E così, a un certo punto, una trentina di anni fa, ci era sembrato che la storia si fosse fermata. Si fosse compiuta. Anzi, fosse finita. Insomma, che avesse doppiato il suo Capo Horn, completando il lungo e tragico percorso millenario verso il Bengodi, il Nirvana, l’atarassica e condivisa pace dei sensi, visto che, dopo la caduta dell’Impero del Male, nulla poteva essere pensato e realizzato al di fuori della via maestra democratica-liberal-occidentale. Illusi.
Era una trappola difficile da evitare, in quei giorni di esaltazione collettiva mentre i cocci del muro crollavano e un intero sistema di potere oppressivo e sanguinario - il peggiore di sempre - implodeva squallidamente tra la vergogna, la miseria e l’impotenza. Mai più dittature, mai più Grandi Fratelli, mai più stupri ferrei e occhiuti delle vite degli altri, perché d’ora in avanti, anche lì, soprattutto lì dove si era saggiato il tallone d’acciaio del totalitarismo comunista, sarebbe sgorgato per sana e istintiva reazione, impetuoso e salvifico, il fiume della libertà, della democrazia, della tolleranza, dell’amore, della fede religiosa, di qualsiasi fede religiosa, per tanti anni umiliata, offesa, calpestata e bla bla bla. C’era forse qualcosa d’altro? C’era forse qualcosa di meglio? La strada, finalmente, era tracciata e uno dopo l’altro tutti i simboli e gli interpreti del cuore di tenebra del Novecento sarebbero spariti dalla faccia della terra.
E invece, eccoci qui. Neofascismo, neonazismo, intolleranza, razzismo, antisemitismo, soprattutto, antisemitismo a chili, a quintali, a tonnellate. Tolto il tappo narcotizzante del comunismo, che tutto aveva tacitato, insabbiato e uniformato, il mondo complicatissimo e demoniaco dell’est Europa è tornato a essere sostanzialmente quello che era prima. E noi, ottusi, a chiederci con gli occhioni sbarrati: ma come è possibile, dopo Wojtyla, questa Polonia? Ma come è possibile, dopo il ’56, questa Ungheria? E non è la stessa domanda da sprovveduti che ci ponevamo pochissimi anni dopo la caduta del Muro, quando siamo stati presi alla sprovvista dalla guerra civile jugoslava, che per buona parte degli anni Novanta - cioè ieri - e a pochi chilometri dai nostri confini - altro che l’Ucraina – ha scatenato uno scannatoio tribale, etnico, religioso che non era affatto una novità, visto che nei Balcani sono sempre stati maestri in quelle pratiche? Ma come? Tolto di mezzo il puzzle di Tito non doveva sbocciare l’Eden della bontà secondo i benemeriti canoni occidentali?
Come si fa a essere così ciechi, così stupidi, così arroganti? Davvero crediamo che la democrazia sia un sistema esportabile? Davvero? E perché, allora, non succede mai? Perché dalle prime romantiche guerre di liberazione dell’America latina sono passati ormai due secoli e pure lì sono ancora nel marasma di mezze democrazie, mezze dittature, vere dittature, golpe a raffica, narcos, delinquenti con i cernecchi, generali, colonnelli, eviteperon eccetera? E in Medio Oriente? Perché in quel posto fioriscono solo autoritarismi, teocrazie e terroristi islamici? E in tutto il resto del mondo, in sostanza, perché non va mai come piacerebbe a noi cervelloni dell’esclusivo club dei soliti noti?
La democrazia, la sedicente democrazia, che ultimamente non se la passa affatto bene neppure in occidente e che forse in larga parte ha fatto il suo tempo - anche se non si può dire - è una roba complessa e perennemente insufficiente, che abbisogna di un lunghissimo, estenuante percorso di crescita e sviluppo e che prevede i passaggi obbligati - obbligati! - della rivoluzione americana, della rivoluzione francese e della riforma protestante, la genesi e la strutturazione dello “Stato” e, soprattutto, di quella che una volta si chiamava la “borghesia”, gente che sa stare a tavola, che mangia con la forchetta e il coltello, che si ferma allo stop, che dà la precedenza a destra, che legge i giornali (!), che legge i romanzi - il romanzo è stato lo strumento principe della formazione di un immaginario collettivo nell’Ottocento -, che si associa, che intraprende, che studia, che prende su di sé l’impegno sociale e politico del proprio ruolo. E senza questi prerequisiti, e per quanto la democrazia liberale covi comunque dentro di sé mille debolezze - basta leggere le profetiche parole del 1835 di Tocqueville sulla dittatura della maggioranza - nessun sistema democratico è possibile. E, tanto meno, esportabile.
I russi sono russi. Non sono un’altra cosa. E non ci sono McDonald’s, Nike o Netflix che tengano se i russi, nei loro duemila anni di storia, non hanno vissuto neppure un giorno di democrazia (e che nessuno definisca democrazia la stagione etilica e pagliaccesca di Eltsin, per favore…). La globalizzazione delle merci, dell’economia e della finanza, l’omologazione sempre più pervasiva dei gusti e dei costumi, nulla ha a che fare con la coscienza delle regole paritarie del gioco, tanto è vero che in Cina c’è il massimo di capitalismo globale e il minimo di democrazia e le cose marciano alla grande lo stesso, alla faccia del popolo sovrano.
Non esiste un unico modello culturale. Non esiste un solo regime politico. Non esiste solo l’Occidente. A noi può piacere, e nonostante tutto è doveroso che ci piaccia, viste le alternative, ma non può essere un unico calco immodificabile da applicare al resto dell’universo, altrimenti ci condanniamo a non capire nulla degli altri e a sbagliare regolarmente tutte le mosse. Come testimoniano i disastri che abbiamo recentemente combinato in Iraq, in Afghanistan e in Libia, dove a forza di imporre il verbo dei giusti, dei puri e dei buoni abbiamo regalato il pallino a delinquenti e lestofanti peggiori di quelli che c’erano prima. Non si gioca con le nostre carte a quei tavoli.
La Storia non finisce mai, continua a muoversi e a regalare sorprese, generalmente pessime, ed è sempre assetata di nuove prede. L’Ucraina è solo l’ultima. E non sarà certo dando moralisticamente del nuovo Hitler a Putin che sbroglieremo questa matassa.
@DiegoMinonzio
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