La strana alleanza
tra Pd e 5Stelle

“Se stiamo insieme ci sarà un perché”, è una hit di Riccardo Cocciante, ma anche un tormentone del governo Conte 2 a trazione giallorossa. Forse gli unici “perché” sono impedire a Salvini e ai sovranisti di espugnare il palazzo e a molti parlamentari 5Stelle di ritrovarsi disoccupati. Se così non fosse non si spiegherebbe il gran rifiuto opposto all’invito del presidente del Consiglio affinché l’alleanza tra grillini e Pd si replicasse anche alle elezioni regionali del 20 settembre, una data che il leader leghista e i suoi alleati, Giorgia Meloni in testa vorrebbero far coincidere con la celebrazione di un’altra presa di Roma.

Se il prudente Conte si è sbilanciato così, significa che comincia a sentire odor di bruciato attorno alla sua permanenza a palazzo Chigi. Del resto, le regionali sono una brutta bestia per i presidenti del Consiglio. Per informazioni citofonare D’Alema (Massimo). All’alba del nuovo millennio era il primo e finora unico post comunista a capo del governo e sulla scia della sua inarrivabile autostima decise di mettere la testa sotto la mannaia del voto regionale e finì per perderla. Il suo successore pugliese (territorio d’adozione dell’ex segretario dei Ds e di tante altre cose) rischia di fare la stessa fine. Troppo logorata la compagine governativa e potrebbe perciò di bastare una spallata nei territori rossi (Marche e soprattutto Toscana) per far venire giù tutto. Da qui la necessità di puntellare il tutto con un’alleanza corroborante per i candidati presidenti di centrosinistra. L’hanno voluta i Democratici (e ci credo), l’ha confermata la piattaforma grillincaselleggia Rousseau ma ormai i Cinque Stelle sono una maionese in fase di impazzimento con gli ingredienti che vanno di qua e di là, specie quello rappresentato da Giggino Di Maio accusato di fare il gioco delle tre carte alle spalle di Giuseppi. Insomma un gran caos, aggravato dal ritorno del Covid e dalle conseguenti ricadute su un’economia già più che ammaccata e sulla problematica riapertura nelle scuole. Poi magari l’alleanza rigettata si trasfigurerà in un voto disgiunto suggerito da qualcuno in segreto per salvare quel che resta della faccia pentastellata e messo in pratica da quegli elettori grillini che non vogliono vedere la destra portarsi a casa altre Regioni.

Però ci sarebbe da obiettare che un’alleanza politica, anche in tempi in cui questo termine ha perso molta qualità, dovrebbe basarsi sui contenuti e non solo sulle opportunità. Nessuno ricorda i freschi precedenti delle ammucchiate anti Berlusconi che si mettevano insieme per sbarrare la strada al Cavaliere salvo poi cominciare a infilarsi a vicenda i le dita negli occhi per la natura troppo diversa dei vari partner con risultati devastanti dal punto di vista governativo. Non risulta che tra Pd e Cinque Stelle si sia ragionato di obiettivi programmatici o di Mes tanto per andare sul concreto ed evocare uno dei principali temi che dividono le due forze politiche e non è cosa da poco. Il Pd farebbe bene anche a riflettere sulla convenienza, in una prospettiva successiva alle elezioni di settembre, di una simile compagnia. Sarebbe ora di capire qual è l’identità di un partito che, pur raccogliendo, sondaggi alla mano, il consenso di più del 20% degli elettori, resta una nebulosa indecifrabile che pare vivacchiare alla giornata. Certo, anche i sassi sanno che l’obiettivo è quello di resistere per bloccare l’arrivo al Quirinale di un successore di Sergio Mattarella non eletto da una maggioranza sovranista. Ma poi? Qualcuno vuol dirci cosa farà il Pd da grande e soprattutto se vuole davvero diventare grande?

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