Prima è arrivata la fase uno ed eravamo tutti angosciati per il diffondersi del contagio e della malattia. Ora sta arrivando la fase due e siamo già tutti angosciati per il rischio che tornino il contagio e la malattia, che abbiamo appena sconfitto. Poi arriverà la fase tre e siamo già tutti angosciati per l’incombere certo e stracerto della depressione, della recessione e della disoccupazione. Ma poi, puntuale come la morte, arriverà la fase quattro, e siamo già tutti angosciati al pensiero delle migliaia e migliaia e migliaia di intellettuali di ogni genere e grado che si sentiranno in dovere di scrivere qualcosa di indimenticabile sulla vita ai tempi del coronavirus. E allora sì che saranno veramente cazzi. Altro che fase uno, due e tre.
L’Italia, si sa, è il paese della retorica. Quindi non dovremmo davvero stupirci nel veder montare, tra le macerie di questo disastro planetario, l’onda spumosa e incontenibile della mono comunicazione collettiva di massa, che ci avvilupperà lungo tutta la stagione autunno-inverno e che già sbocca, sgorga e gorgoglia, zampillando aggettivi comparativi e superlativi come una fontana di una villa di delizia. E che sta cercando forme di riflessione ben più esaustive del semplice articolo di giornale, per quanto grondante di eroi, angeli, cherubini e serafini già di suo, ogni riga una zaffata di melassa, ogni capoverso una carie ai denti, o dell’altrettanto inappagante servizio in televisione, generalmente suddiviso tra l’approccio pietistico-lacrimevole studiato per la casalinga di Voghera e quindi alla ricerca famelica della nonnetta, del nonnetto o del caso umano in genere da sbattere davanti a un microfono, che da che mondo è mondo fa sempre il suo effetto, e quello militante occhiuto e accusatorio, marchio di fabbrica degli epigoni di Santoro, sul ben sperimentato canovaccio che qui è uno scandalo e qui dovete renderci conto e qui ora basta con lor signori che si accaniscono sugli umiliati e gli offesi e qui mi sa che qualcuno finisce in galera come ai tempi belli di Manipulite.
No, per quanto da ormai due mesi non si parli d’altro e non si scriva d’altro e non si ascolti altro, tutto questo comunque non basta, perché loro, perché noi, apine operose e infaticabili della frustrazione intellettuale di massa - tema gigantesco che meriterebbe tutta una riflessione a parte - ci siamo messi in testa, nelle nostre testoline operose e infaticabili, che il mondo - che è già tanto addolorato e lontano e misterioso, povero lui - non può, ma davvero non può fare a meno del nostro fondamentale contributo di analisi e riflessione e approfondimento, una sorta di bussola esistenziale per affrontare quest’era buia e tempestosa. E quindi, e il pensiero mette davvero i brividi, in migliaia e migliaia e migliaia di case, esattamente come in migliaia e migliaia e migliaia di tane di scarabei stercorari, starà sicuramente già prendendo forma l’inarrivabile e agognato e definitivo Grande Romanzo Italiano, quell’opera attesa da anni e lustri e decenni che finalmente racconterà i tempi nuovi, quelli in cui tutto è cambiato per l’amore, la morte, il tradimento, la speranza, il potere, le relazioni, il nostro stare con gli altri ma non in mezzo agli altri, lontani ma vicini, e non più, come prima, vicini ma lontani, una frattura così rivoluzionaria, ma davvero così rivoluzionaria, e deflagrata in così breve tempo, oltretutto, signora mia, che non si sa proprio più cosa pensare.
E chissà che metafore ardite, che sconquasso dei vecchi schemi, dei vecchi plot, dei vecchi script, che palingenesi radicale e definitiva del linguaggio e, soprattutto, della sintassi, uno choc narrativo da fare il paio con quello firmato da Cèline e Joyce giusto cent’anni fa, ogni secolo ha i suoi geni, niente da dire, senza dimenticare che questa tempesta creativa scatenata dal virus, non mancherà di ribaltare tutti i capisaldi del romanzo giallo, del romanzo noir, del romanzo di formazione, del romanzo storico, del romanzo epistolare, del romanzo distopico, del romanzo fantasy e di quello fantascientifico, di quello apocalittico e pure di quello postapocalittico, insomma, una grande, sterminata, enorme, oceanica pletora di letteratura da sciampista, di letteratura da stazione che ci perseguiterà per mesi, vergata dalle preclare firme dei peggio tromboni dell’editoria filistea della repubblica delle banane e delle peggio madame Bovary, e consorte, del Belpaese, mese dopo mese, titolo dopo titolo, presentazione dopo presentazione, marchetta sulle pagine culturali dei giornali dopo marchetta sulle pagine culturali dei giornali, collosa, vischiosa e appiccicosa come un gatto nero attaccato ai maroni. Poveri noi.
E i lirici? Non vorremo forse dimenticarci dei lirici? Come potrà il paese del Dolce Stil Novo di Dante e Petrarca non far sbocciare decinaia e decinaia, macché, migliaia e migliaia di poeti vecchi e nuovi e conseguenti decinaia e migliaia di malinconici componimenti sul Covid 19 e sonetti ed esametri ed epigrammi ed epicedi e madrigali e canzoni e stanze e villanelle e quartine e terzine e rime baciate e rime concatenate e rime sciolte e flussi di coscienza grazie ai quali, come Albatros sopra il gorgo del Maelstrom, i nostri eroi non mancheranno certo di regalarci immagini folgoranti, visioni allegoriche, lune lattiginose e contagiate che occhieggiano dalle siepi, caprette silvane che pendono dai colli e scriveranno e scriveranno e scriveranno, spietati e famelici, fino a invadere tutte le caselle postali possibili e immaginabili dei poveri editori locali e nazionali e degli ancor più derelitti premi letterari per opere prime, seconde e pure terze.
E non ci sarà requie, non ci sarà ripensamento, non ci sarà pietà. Noi, costretti ai domiciliari, continueremo imperterriti a scrivere. E fra le tante nefandezze che non si possono proprio perdonare all’ormai famigerato #restateacasa questa è di certo la nefandezza più grande. Che qualcuno ci censuri, per pietà!
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