Consideriamo da sempre “1984”, il celeberrimo romanzo di George Orwell, come l’affresco più terribile e profetico di una società totalitaria, controllata in ogni suo ambito, anche il più intimo, da un Grande Fratello che tutto vede, tutto codifica, tutto vieta e tutto impone.
Fama legittima e meritata - stiamo parlando di un grande scrittore e di un grande libro - che ha scolpito in quelle pagine la metafora plastica dei regimi dittatoriali, vero frutto avvelenato del secolo più grandioso e tragico della storia dell’umanità. Ma ora, a settant’anni dalla sua pubblicazione e con tutta la melma passata sotto i ponti dell’Occidente, possiamo dire con certezza che l’obiettivo dell’autore britannico è fallito e che il suo scritto è ormai datato, perfetto per affrescare quella stagione demoniaca della nostra vecchia, cara e sanguinolenta Europa, ma non più per prefigurare il futuro. Quello che si sta edificando proprio ora.
Da questo punto di vista, è molto più visionario un romanzo meno noto - e meno bello - come “Il mondo nuovo” di Aldous Huxley, che narra anch’esso di una società futura mostruosa e radicalmente totalitaria, basandosi però su fondamenta diverse e opposte rispetto a quelle di “1984”. Mentre in quest’ultimo tutto è vietato, nel primo tutto è concesso. Anzi, tutto è regalato, omaggiato, garantito. Per quanto spaventosi siano stati i crimini perpetrati da nazismo e comunismo e alla faccia delle centinaia di milioni di morti da iscrivere nella loro contabilità, le dittature si basavano su fondamenta paradossalmente fragili: il sogno di poter raddrizzare con la violenza quel ramo storto che sono gli esseri umani e il sogno ancor più sognante di poterli modellare a forza di divieti. Illuse. Quei regimi erano destinati a crollare a furia di continui espansionismi militari o a implodere a causa dell’insostenibilità economica di una società dove tutti erano spie e tutti erano spiati. Non poteva reggere. E infatti…
Insomma, bisognava inventarsi qualcosa di più raffinato per mettere finalmente a tacere il gregge degli uomini. La vera dittatura, quella surrettizia, quella infida e infingarda, quella ipnotica e fangosa, quella definitiva, non prevede guerre, vagoni piombati, lager e gulag, polizie occhiute e torturatrici che calpestano le vite degli altri, ma l’esatto opposto. Niente battaglie, niente camere a gas, niente stermini, niente fame, niente sete, niente divieti, niente scontri, nessun dolore, nessuna tristezza, nessuna differenza. Ecco, nessuna differenza. Nessuna differenza di genere, di razza, di fede, di cultura. Una sterminata, cellulitica felicità ottusa e omnicomprensiva nella quale tutti sono uguali a tutti gli altri perché nessuno ha più un’identità precisa. Huxley lì è stato strepitoso, come se avesse prefigurato novant’anni fa la grande marmellata globale, la sorridente dittatura omeopatica spalmata da mane a sera sui social media, il conformismo fariseo e asessuato che strabocca da film, letteratura di serie C, serie e programmi tv.
A questo proposito, fa davvero impressione l’ideologia che pervade il trailer di lancio della nuova stagione di X Factor su Sky. Ora, è vero che passare da Orwell e Huxley a Mika ed Emma Marrone è una roba oggettivamente spassosa ed è vero che non dobbiamo sprecare neanche un minuto con una baracconata che ha lanciato talenti inarrivabili quali Marco Mengoni, Lorenzo Fragola e Francesca Michielin - a proposito, come mai Mina, De Andrè, Battisti, Dalla e Battiato non hanno mai vinto X Factor? – ma anche questo è il segno dei tempi.
Bene, nello spot si annuncia che nella nuova edizione verranno abolite tutte le categorie - uomini, donne, over e gruppi - che non ci sono più differenze di età e di genere, che si è quel che si è, che non ci sono steccati, che tutti sono uguali a tutti gli altri e via con una serie di immagini nel quale il presepe della nuova società definitivamente indifferenziata è già tutto e bello apparecchiato: la ragazzina anticonformista, il ragazzino sessualmente non determinato, la bella, il brutto, la cicciobomba, l’alto, il basso, il gay, il transgender, il nero, il giallo, il rosso, l’ebreo, il cattolico, la mangiauomini, il rocker anziano, il latinos giovane e poi aggiungeteci tutto quello che vi pare e piace: lo sniffatore di trielina, il collezionista di lepidotteri, il vecchio sporcaccione, il ballerino di salsa&merengue, il pesista bulgaro, la cubista egittologa, il terrorista islamico vegano, il piazzista di materassi. E il tutto condito con l’insopportabile rockettino finto ribellista degli ancor più insopportabili Maneskin, che al di là dei loro tre oggettivi punti di forza – il cantante figo, il cantante figo, il cantante figo – sono solo marketing pianificato sulla confusione identitaria e sessuale.
Per l’amor del cielo, non è che bisogna fare una tragedia per una scadente trasmissione televisiva, ma qui il tema è un altro. E riguarda l’aria che tira da un bel po’ di tempo nel mainstream comunicativo – i giornali, ragazzi, i guai che combinano i giornali… - e che consiste nella rimozione e nell’abbattimento fisico dei segni del passato, nelle campagne talebane alla “Metoo”, nelle quote obbligatorie di attori di colore anche nei film ambientati nella Versailles del Seicento, nei libri scolastici convenzionali, nel relativismo etico e religioso, nella vaghezza di genere.
Insomma, nell’eliminazione della differenza. Ma la differenza è il sale degli organismi sociali, oltre che il suo dramma, ed è parte ineliminabile del nostro stare al mondo. Il monoessere, il monopensiero, la monocultura, così come la monoinformazione, rappresentano il vero pericolo, il vero pavor nocturnus, il vero regime, molto più pericoloso, per quanto insensato possa apparire, di quello con i baffetti e di quello con i baffoni. Quelli volevano schiacciare l’individuo – che è l’unica cosa che conta - con la forza e non ce l’hanno fatta. Questi, invece, con lo zucchero, il miele e la vaselina, e probabilmente invece sì.
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