La violenza sulle donne e gli slogan sbagliati

Il patriarcato esiste solo negli occhi di chi vuole vederlo ovunque. Poi si può andare in piazza a urlare quello che si crede e si può scomunicare chiunque ne contesti l’esistenza come se negasse la Shoah, ma questo è quanto.

La demagogia è la nemica della realtà. E non ci sarà nessuna Giornata contro la violenza sulle donne - tema assolutamente condivisibile - come quella di pochi giorni fa che potrà farla cambiare. Autorevoli e plurimi studi sociologici a partire dagli anni Sessanta, come argomentato da due lucidissimi interventi di Luca Ricolfi sul “Messaggero” e Giulio Meotti sul “Foglio”, hanno sancito la sparizione pressoché definitiva nelle nazioni occidentali dei tratti distintivi della società patriarcale: il potere dispotico del capofamiglia, il matrimonio combinato, la totale sottomissione dei figli (anche maschi) all’autorità paterna, il primato dei doveri sui diritti in qualsiasi campo sociale.

È la cosiddetta era della “società senza padre” che coincide con “la fine del dominio maschile” dopo che il capitalismo occidentale ha creato una struttura sociale egalitaria in cui diminuisce la differenza tra i sessi - dopo l’ascesa del matrimonio d’amore dall’Ottocento in poi e le rivoluzioni studentesche degli anni Sessanta e Settanta – e si attua il “rapido liquefarsi della figura del padre”. Esiste ormai un’intera biblioteca che sul patriarcato ha scritto la parola fine.

Ma se da un punto di vista scientifico la questione è risolta, nel dibattito politico invece il suo fantasma continua ad aleggiare. Accecando le persone. Avvelenando i pozzi. Portando tutti quanti fuori strada nel capire e affrontare l’intollerabile - intollerabile: chiaro? - scandalo della violenza sulle donne. Che non si risolve certo sventolando bandiere wokiste, ululando slogan psicotropi e aizzando una grottesca caccia al maschio in quanto tale. Come si fa a parlare di società patriarcale proprio nel momento in cui quella figura è scomparsa dalla famiglia e dalla comunità? E’ una contraddizione in termini.

La realtà è ben diversa. In sintesi: la nostra società non è più patriarcale, ma è maschilista, basata cioè sul dominio maschile, a dispetto della scomparsa del concetto di autorità. Esistono studi molto accreditati che sostengono che i soprusi di cui sono vittime le donne sono il prodotto - paradossale - della sconfitta del patriarcato. Sono proprio le sacrosante conquiste di libertà e autonomia femminili negli ultimi decenni ad aver reso i maschi esautorati dal loro ruolo storico insicuri, aggressivi, violenti e vigliacchi, perché incapaci di accettare un rifiuto, un allontanamento, la fine di una relazione. Il maschilismo di oggi è figlio del contraccolpo psicologico a conquiste delle donne che i maschi non sono pronti ad accettare, che non vogliono accettare. Una violenza che quindi non è figlia del patriarcato, ma della sua agonia, del caos che questi sanguinosi colpi di coda continuano a creare.

Capite che è tutto diverso. La violenza permane, ed è la cosa più grave, ma è la sua genesi ad essere opposta. E lo confermano i dati: i Paesi con il più alto numero di femminicidi e stupri sono proprio quelli più civilizzati, quelli scandinavi ad esempio, rispetto a un paese arretrato, mammone e familistico amorale come il nostro, che da questo punto di vista è più “sicuro” della Svezia. Una sola donna violata è inaccettabile, ovviamente, ma i numeri, se vogliamo ragionare con la testa e non con la pancia, non si possono piegare.

Quindi il tema è doppio e tale deve essere la risposta. L’Italia dovrebbe combattere il patriarcato dove davvero esiste e non nei deliri di certe femministe di serie C, che niente hanno a che fare con le vere femministe. E cioè nei mondi etnico-religiosi che sono ancora immersi in quella mentalità. E a questo proposito sarebbe il caso che tutti ci ricordassimo cosa è successo alla povera Saman Abbas, uccisa dai suoi familiari per aver rifiutato un matrimonio combinato, e che i dati ufficiali dimostrano che stupri, violenze sessuali eccetera sono molto più frequenti tra le ragazze straniere rispetto a quelle italiane e che accanto alla benemerita Fondazione Giulia Cecchettin ci vorrebbe anche una altrettanto benemerita Fondazione Saman Abbas che aiuti le ragazze straniere oppresse a liberarsi dai loro patriarchi e a salvarsi dalle botte, dalle infibulazioni e da tutto il resto di quello schifo che avviene qui, in Italia. Mentre nel frattempo e nell’assordante silenzio delle femministe di serie C di cui sopra le ragazze israeliane vengono stuprate dal patriarcato di Hamas, quelle iraniane impiccate dal patriarcato di Teheran, quelle afghane strangolate dal patriarcato dei talebani.

Altra cosa è invece la lotta al maschilismo occidentale, che è molto più infido e subdolo e fanghiglioso. E che si basa sull’uso sistematico e scellerato del corpo delle donne per commercializzare ogni tipo di prodotto, evento e spettacolo perché - fuori da ogni bacchettonismo – è davvero deprimente vedere queste giovani cantanti (generalmente scarse) “obbligate” a far vedere il sedere durante i concerti, così come queste giovani giornaliste sportive televisive (generalmente incompetenti) “obbligate” ad agghindarsi come delle Veline e tutta un’altra serie di messaggi subliminali (fatevi un giro negli uffici – e nelle redazioni dei giornali – per vedere quale tasso di lurido maschilismo vi alberghi) contro i quali non si ricordano feroci denunce delle femministe di serie C sempre di cui sopra, troppo impegnate a dire che Mozart era patriarcale, la Madonna un mero “strumento” per far nascere Gesù (maschio) e altre cretinate del genere.

Il maschilismo si basa sulla dittatura dei diritti, dei diritti a prescindere, dei diritti sempre e comunque e su qualsiasi argomento. E’ per questo che il maschio pensa di potersi prendere tutto quello che vuole senza rispettare niente. E’ per questo che c’è del marcio non solo nel maschilismo, ma in tutta la nostra società bambina e viziata.

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