Al netto del ricorso presentato dal centrodestra, le elezioni comunali di domenica a Como si conquistano un posto di diritto nella storia politico amministrativa della città. Il centrosinistra è in netto vantaggio.
Da quando esiste l’elezione diretta del sindaco è successo solo un’altra volta nel 2012 quando Mario Lucini espugnò palazzo Cernezzi. All’epoca pesarono la disastrosa esperienza della giunta precedente di centrodestra guidata da Stefano Bruni e le divisioni in quel campo, con le primarie tra Laura Bordoli e Sergio Gaddi vinte dalla prima sostenuta dall’estabilshment dell’allora Popolo della Libertà. Anche questa volta Giordano Molteni, candidato voluto da Fratelli d’Italia, si è trovato l’ingombro delle cose non fatte da parte del suo predecessore, Mario Landriscina. I tentativi di prenderne le distanze non hanno convinto gli elettori che, in parte, hanno fatto una scelta di discontinuità e si sono rivolti ad altre offerte: su tutte quella di Alessandro Rapinese, candidato civico che vede per la prima volta la possibilità di occupare la poltronissima di sindaco.
Ma non sarà facile, perché i voti che lo separano da Barbara Minghetti sono parecchi e la data del 26 giugno per il ballottaggio (salvo sorprese derivanti dal ricorso) troverà magari già in vacanza alcuni elettori del primo turno.
Ma altri aspetti rilevanti del voto comasco riguardano innanzitutto l’assenza del movimento Cinque Stelle di cui si dovrebbe essere giovato in buona parte Alessandro Rapinese, e, di conseguenza l’assetto dell’alleanza di centrosinistra che ha saputo contenere tutte forze anche di orientamento diverso come i socialisti e i calendiani, ma accomunati da un profilo riformista. Una scelta partita da lontano e da input che sono arrivati anche dalla società civile che ha convinto gli elettori e consentito, in una fase caratterizzata da una marcata liquidità del voto, di andare oltre i confini della coalizione e del blocco sociale di riferimento.
Una tendenza già segnalata dai sondaggi pre voto che ha trovato, grosso modo, conferma anche nelle urne.
Certo il curriculum, la personalità e l’efficace campagna elettorale di Barbara Minghetti hanno forse dato un surplus (ragionamento che in maniera speculare si può applicare anche allo sfidante nel ballottaggio), ma l’idea vincente è stata quella do riuscire a tenere dentro alcune rappresentanze politiche e anche di scegliere di lasciarne fuori altre.
Il Pd a tutti i livelli, in cui è partita una riflessione sul “campo largo” pensato da Letta attraverso anche l’alleanza con i Cinque Stelle e dopo la disastrosa performance di questi ultimi, non dovrebbe ignorare l’esperienza comasca, ancor di più se si dovesse rivelare vincente al ballottaggio. Questo “laboratorio” in cui è stato possibile far convivere sinistra riformista, centristi e ambientalisti, potrebbe rappresentare la soluzione più efficace per sfidare il centrodestra nelle elezioni politiche del prossimo anno.
Certo la legge elettorale in vigore è diversa da quella per la scelta dei sindaci e non favorisce più di tanto le alleanze pre voto. Ma se ci fosse la volontà di farlo, il tempo per cambiarla prima delle politiche non mancherebbe.
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