Adesso tocca a Giorgia Meloni. Su di lei si riversano tutte le speranze e le invettive, entrambe magari eccessive, le seconde, da parte di certe campagne di stampa piuttosto sguaiate.
Del resto, FdI è strafavorito per le elezioni del 25 settembre. Merito anche del fatto di essere stata l’unica forza di opposizione al governo Draghi prima, ma anche di averlo puntellato dopo in politica estera sulla linea tenuta nei confronti del conflitto russo e ucraino. Il movimento di Giorgia, sondaggi alla mano, è ritenuto il più credibile non solo del centrodestra, dove gli atteggiamenti ondivaghi, la partecipazione e poi l’affondo all’esecutivo sembrano penalizzare Lega e Forza Italia. E, dopo gli accordi di alcuni giorni fa, le carte le darà il leader del partito più votato che sarà di gran lunga Fratelli d’Italia. A Giorgia Meloni dovrebbe spettare anche la scelta del premier e potrebbe auto investirsi, una cosa che spaventa più di una cancelleria europea e non solo, timorosa di ritrovarsi una sorta di Orban in gonnella alla guida dell’Italia.
Al di là degli stereotipi e dei luoghi comuni un po’ stantii sul fascismo di ritorno, ci sarebbe da lavorare dentro una forza politica che, come tutte quelle che crescono in maniera rapida e tumultuosa, ha finito per imbarcare di tutto e, una volta al governo, non potrà nascondere la polvere sotto il tappeto.
Un altro elemento di riflessione però è l’ennesima attesa messianica degli italiani verso un leader politico emergente. Un film che, dopo la fine della Prima Repubblica, abbiamo già visto con, nell’ordine, Umberto Bossi, Silvio Berlusconi, Matteo Renzi, Il Movimento Cinque Stelle e Matteo Salvini. Tutti più o meno stravotati per un certo periodo più o meno breve e poi abbandonati tra la delusione degli elettori.
Un rischio che corre ora anche Meloni e fa pensare che forse, quello che funziona non è tanto la qualità del ceto politico che rimane comunque in generale modesta rispetto al passato più o meno remoto e anche per questo incapace di reggere a lungo il timone, bensì un sistema che, con ogni evidenza non sta in piedi. Più che i giocatori dovrebbero essere le regole a cambiare. Tutta la fila di presidenti del Consiglio e governi che si sono susseguiti negli ultimi dieci anni non hanno quasi mai rispecchiato la volontà degli elettori. E tra il potere esecutivo (nominato) e quello legislativo (eletto) si è creato un inevitabile corto circuito che ha finito con rendere sterile l’azione delle istituzioni. Anche la caduta di Draghi è in parte figlia di questa situazione.
Allora, la prima cosa a cui mettere mano da parte di chiunque primeggi il 25 settembre, dovrebbe essere una radicale riforma del sistema. Il presidenzialismo, caro anche a Giorgia Meloni, non può più essere considerato tabù in un’epoca in cui la rappresentanza è andata in crisi. Un maggior coinvolgimento degli cittadini nelle scelte (l’attuale legge elettorale va nella direzione opposta) potrebbe riportare alle urne i tanti che da tempo scelgono di astenersi e che sono il primo partito italiano. E una razionalizzazione del sistema bicamerale porterebbe a un iter legislativo più rapido ed efficace. In caso contrario, chiunque vinca, si riprodurrebbe la vecchia massima italiana del Gattopardo: quella per cui tutto deve cambiare perché nulla muti.
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