Quando Mario Draghi parlò di “rischio calcolato” per le riaperture di molte attività bloccate a causa della pandemia, forse sottintendeva che il calcolo era anche politico.
Ce ne accorgiamo in questi giorni segnati dal ritorno prepotente dei partiti della maggioranza che il presidente del Consiglio, forte dell’investitura ottenuta e del corale sostegno dei mass media, aveva tenuto al di fuori delle decisioni cruciali sulle due priorità del momento: il piano vaccinale e il Recovery plan o Pnrr che dir si voglia.
Peraltro due patatone piuttosto ustionanti che Draghi si è smazzato da solo o con i suoi ministri più fedeli.
Chiaro che, per poterlo fare, il capo del governo aveva bisogno che le forze politiche della sua maggioranza se ne stessero buone. E forse per questo ha offerto loro il contentino delle riaperture nonostante il parere contrario di gran parte dei virologi e del mondo scientifico e mentre la curva dei contagi scende con grande lentezza. Una crisi, o anche solo l’incertezza politica in mezzo al guado della pratica per ottenere i 248 miliardi offerti dall’Europa, avrebbe pregiudicato una partita troppo importante su cui si gioca il destino del Paese .
Ora però siamo arrivati al secondo tempo. Con la somministrazione dei vaccini che finalmente marcia quasi al passo scandito dal generale Figliuolo e il documento sugli aiuti da Bruxelles ormai protocollato, tornano i partiti, tutti per vari motivi in fibrillazione da campagna elettorale. La legislatura, infatti, andrà a scadenza nel 2023 e l’anno prima vi sarà l’elezione del successore di Sergio Mattarella al Quirinale. Ecco perché tutti si stanno posizionando. Detto che per la presidenza della Repubblica, Draghi è avanti dieci chilometri rispetto ai potenziali contendenti, il match delle prossime politiche è fondamentale per il futuro di quasi tutte le forze in campo. Lo sa bene Matteo Salvini, che, non a caso, ha avviato lancia in resta la polemica sul coprifuoco, di facile popolarità tra la gente che ormai non sopporta più alcuna restrizione. La sua è una partita doppia: deve evitare la rimonta del centrosinistra, ma anche che Giorgia Meloni lo sorpassi dalla corsia sgombra dell’opposizione.
Pure per Enrico Letta la corsa non è agevole. Parte dietro la Lega nei sondaggi e non a caso ha messo subito il leader del Carroccio al centro del mirino. Perché dentro il Nazareno, poi, ci sarà sempre, in caso di mancata vittoria alle urne, chi farà presente che Zingaretti era quel che era, ma almeno qualche Regione l’aveva pur portata a casa. Anche il neo segretario (tutto attaccato, neo è un prefisso) piddino ha un competitor per la leadership del centrosinistra e l’eventuale ritorno a palazzo Chigi, in Giuseppe Conte, fresco leader dei Cinque Stelle. Questi ultimi stanno peggio di tutti. Al caso Grillo, con il video in difesa del figlio accusato di stupro, si è aggiunto il divorzio da Casaleggio e la piattaforma Rousseau e il rischio sempre più concreto che il Movimento trascolori in partito, cioè proprio il nemico originario da combattere per Di Maio (sempre più ministeriale) & C. , con conseguente ulteriore emorragia di consensi e obbligo di andare a rimorchio del Pd da subalterni nell’alleanza. Infine c’è Renzi che è sempre pronto a vedere che effetto che fa.
Per Draghi questa continua ricerca di visibilità dei partiti . accentuata anche dal voto autunnale per i sindaci in città come Roma, Milano, Napoli e Torino, potrebbe rappresentare qualche grattacapo. Perché è chiaro che la maggioranza è destinata a diventare una sorta di pentola a pressione a rischio di deflagrazione. Da qui i continui appelli del capo del governo a mantenere l’unità, a considerare bene la posta in gioco, cioè il futuro del Paese delle prossime generazioni. Basterà a evitare un patatrac che, questa volta, l’Europa non ci perdonerebbe? Perché purtroppo, e anche per colpa degli italiani, la responsabilità non paga alle urne.
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