Nei panni della riforma per l’autonomia differenziata ci sarebbe da dormire sonni poco tranquilli. Per chi si è perso le puntate precedenti, questo è un tormentone che la Lega di Salvini ha in qualche modo ereditato da quella di Bossi che nell’autonomia o di più aveva il suo core business. Sono passati pochi lustri, ma sembra trascorso un secolo da quando il Senatur tuonava nelle piazze su secessione e federalismo e Gianfranco Miglio dava una forma culturale e nobile a queste idee. Il risultato è stato una riforma timida e confusa, approvata da un governo di centrodestra dopo che il referendum sulla devolution era stato bocciato dai cittadini. Il federalismo in vigore non ha cambiato la vita dei cittadini, al Nord come al Sud, caso mai ha aumentato i centri di spesa. E peggio ancora ha fatto quella riforma del Titolo Quinto della Costituzione, frutto di un governo di centrosinistra a fine corsa nel disperato tentativo di rimontare consensi, che ha creato solo storture e alimentato lo scandalo “regionopoli”.
Per questo, la riforma per le autonomie, esaminata ieri dal Consiglio dai ministri, ha poco da stare allegra. Nonostante l’impegno di Roberto Calderoli, elemento di continuità nella Lega su questo tema, il rischio che muoia in culla dopo essere nata in grande ritardo o che cresca in maniera stentata è tutt’altro che improbabile. Già il fatto che tra i referendum di Lombardia e Veneto sulla materia e il primo timido vagito della legge siano passati ben sei anni, la dice lunga sulla volontà politica, forse anche all’interno dello stesso Carroccio che nel frattempo è partito alla conquista di quel Sud che vede questa roba come il demonio.
Adesso però i fari sono puntati sul Nord, dove la Lega come nel resto del Paese peraltro, è in difficoltà. Però qui, in Lombardia, ci sono le elezioni e al di là della vittoria scontata del centrodestra, c’è da vedere quale sarà la distanza degli ex lumbard da Fratelli d’Italia. Piantare una bandierina con il voto alle viste potrebbe aiutare a rimotivare quegli elettori che attendono queste cose come Godot. Ma una volta passata la festa delle urne, il santo dell’autonomia rischia davvero di essere gabbato. Già il povero Calderoli ha dovuto mettere mano robusta alla lima per togliere tutti gli spigoli dal decreto. Ma non sembra essere bastato. Sotto il Rubicone l’autonomia provoca ancora reazioni allergiche. Troppo bello continuare a crogiolarsi in quell’assenteismo che dalla Cassa del Mezzogiorno fino al Reddito di Cittadinanza ha consentito al Sud di stare più o meno a galla senza pensare più di tanto a far da sé come invece vorrebbe fare il Nord. E viene da sorridere quando si sente che, uno dei problemi per le autonomie nella parte meridionale dello stivale sia la carenza di infrastrutture quando hai un ministro leader della Lega che, appena insediato, ha messo il Ponte di Messina in cima alle priorità. Il problema in verità è culturale. E anche politico quando investe la prima forza del paese, Fratelli d’Italia, assistenzialista per vocazione che proprio nel Meridione ha profonde radici. Certo, l’autonomia è stata mercanteggiata con il presidenzialismo, caro a Meloni & C. Ma proprio il presidente del Consiglio, qualche giorno fa, si è sentita in dovere di parlare di italiani di serie A e serie B, cosa che ha fatto indispettire non poco l’alleato leghista.
Vedremo dopo le elezioni come andrà a fine il travagliato parto delle autonomie. Ma alla luce delle premesse c’è poco da stare allegri. Il Parlamento è fornito di binari senza fine su cui piazzare le leggi per non farle arrivare mai. O portarle al capolinea, stremate e poco efficaci. Fino a prova contraria.
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