Visto che siamo perennemente sommersi dalla fuffa - là il mondo sta per saltare in aria, qui ci si accapiglia su Zelensky al Festival di Sanremo, per dire il livello… - una riflessione come quella di Liliana Segre a margine delle celebrazioni della Giornata della memoria è invece da conservare alla stregua di un bene prezioso.
La senatrice a vita, scampata all’Olocausto, si è detta pessimista sul futuro perché, a suo avviso, fra qualche anno sulla Shoah ci sarà solo una riga sui libri di storia e, poi, non ci sarà più neanche quella. L’analisi è di quelle lapidarie, ricorda il finale di uno dei magnifici romanzi del premio Nobel Isaac Bashevis Singer, gigantesco narratore dell’epopea della civiltà yiddish, che ha sempre raccontato senza un’oncia di retorica e di vittimismo e, anzi, con un nichilismo di inaudita spietatezza la cosmogonia di quel mondo, la sua brutale sparizione e, più in generale, il cuore nero della natura dell’uomo.
Il dibattito sulla frase della Segre è stato molto vivace e si è grosso modo indirizzato sull’inadeguatezza della scuola (vero), delle famiglie (vero), della sottocultura pop che sminuzza tutto dentro un enorme frullatore all’interno del quale ogni cosa vale il suo contrario e quindi nulla vale qualcosa (vero) e, soprattutto, sulla superficialità, sull’analfabetismo, sull’ottusità della comunicazione social, che impedisce di stare sugli argomenti, di studiarli, di ponderarli e di farli propri (vero).
E probabilmente la Segre intendeva proprio questo. E cioè che la nostra società consumista, conformista, farisea, filistea e soprattutto ignorante, ignorante alla massima potenza, incolta al massimo livello, non è più in grado di separare il grano dal loglio, di discernere il bene dal male, di comprendere la dimensione storica degli eventi e di essere quindi lontanissima da un approccio etico alla propria esistenza, alle proprie radici, alla propria comunità. E anche questo è vero. Come darle torto, osservando il degrado nel quale siamo impaludati?
Forse però questa amarissima riflessione sulla progressiva scomparsa del monolito dell’Olocausto dalla memoria collettiva nasconde qualcosa di più profondo, qualcosa di più definitivo. Qualcosa di più terribile. E’ così perché è inevitabile che sia così, è scritto che sia così, è addirittura “logico” che si così. E non tanto perché sia una conseguenza dei pessimi tempi che corrono o della stoltezza della società occidentale o altro ancora, ma perché la “rimozione” è insita nella natura degli esseri umani e ancora più in generale è scolpita nella storia dei secoli.
Tutto è destinato a sparire. Tutto ciò che è emotivo è destinato a sparire. L’evento immenso, l’evento gigantesco, l’evento che agli occhi dei contemporanei è destinato a cambiare le sorti del mondo, via via si rimpicciolisce con il tempo e si stempera e svapora. Passano gli anni, scompaiono i testimoni e i protagonisti e le vittime e i familiari delle vittime e poi i figli delle vittime e poi i nipoti delle vittime e tutto, tutto quel pulsare di terrore e orrore e sangue e dolore e disperazione, viene giorno dopo giorno ricacciato in un’algida dimensione storico-statistica. Un mero capitolo dell’infinita saga della terra. E anche se quell’evento è eccezionale - e la Shoah è un evento eccezionale per mille motivi che non è il caso di ricordare – bene, anche quell’evento eccezionale lo sarà meno cento anni dopo e ancora meno duecento anni dopo e proprio per nulla dopo mille. Altre carneficine si susseguiranno, altri fatti inauditi, altri massacri degli innocenti – e che cos’è la storia se non un ininterrotto massacro di innocenti? – e pure tutto questo sarà destinato a finire nell’archivio contabile del tempo.
Chi si emoziona oggi per la strage degli albigesi in pieno medioevo? Chi per quella dei vandeani a opera della scintillante e democraticissima rivoluzione francese? E per quella dei nativi nordamericani e sudamericani da parte dei civilissimi europei? E chi per i genocidi tribali africani? E chi per quelli asiatici? E ancora, ma gli esempi potrebbero essere dozzine, a chi scalda oggi i cuori la cancellazione pianificata, geometrica, industriale di milioni di proprietari terrieri operata dallo stalinismo, che in quanto ad annientamenti di massa non prendeva certo lezioni dai nazisti? Sì, anche questa è ancora piuttosto vicina, ma date tempo qualche decennio e vedrete che pure per lei si arriverà a una bella riga nei libri di storia. Pari e patta.
Forse perché siamo delle bestie, forse perché siamo egoisti, forse perché siamo davvero dei soggetti di malarazza che vivono solo di sé, per sé e in sé e che non vedono un centimetro fuori dal proprio patetico microcosmo. Ma forse è solo un meccanismo di difesa. Gli esseri umani sono programmati per dimenticare, sono programmati per abituarsi, abituarsi a qualsiasi cosa, anche la più incredibile - si abitua a tutto quel vigliacco che è l’uomo – perché altrimenti non potrebbero sopravvivere. Non è umanamente possibile caricarsi sulle spalle tutto il male del mondo. E’ un peso intollerabile, insopportabile, che va al di là della nostra capacità di essere empatici e solidali. E’ troppo per le nostre piccole testoline e i nostri cuori affannati, è troppo, ti bastano e avanzano i tuoi, di dolori segreti e manifesti. E’ per quello che a un certo punto metti tutto nel dimenticatoio. Shoah compresa, questa è la verità.
Quando gli ultimi sopravvissuti non ci saranno più e non ci saranno più neppure i loro figli e nipoti e pronipoti, tutta quella tragica vicenda, tutto quello sfregio inaudito all’umanità diventerà “solo” storia o letteratura - lo è già adesso - e non susciterà più alcuna passione, alcuno scandalo, sarà solo un rilevante argomento di studio. Altri affanni affanneranno gli esseri umani nei secoli dei secoli, fino a quando il buon Dio deciderà di mettere fine alla tragica, incomprensibile e, in fondo, comica vicenda degli uomini e li cancellerà per sempre dal libro della vita.
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