Uh, che barba e che noia la legge elettorale! Come sono lontani i tempi dei referendum di Mario Segni, democristiano atipico che buttò via il biglietto vincente della lotteria politica, quando la gente faceva ressa ai seggi per votare il referendum sulla preferenza unica, schiaffandola in faccia a Craxi non ancora favinato che aveva consigliato a tutti una gita al mare. Adesso solo a parlare di norme per il voto si diffondono epidemie di alopecia a chiazze.
Altri tempi quelli dei Mariotto e del maggioritario, parola che sembrava lenire ogni male di una politica marcia e corrotta. Invece adesso, nella cosiddetta Terza Repubblica, stiamo tornando agli usi e ai costumi della Prima. Giggino Di Maio che appoggia il proporzionale sembra un democristiano, di sesta fila eh, dei tempi in cui si misurava tutto con il bilancino: lo 0,5 in più significa tot parlamentari e potere di interdizione in crescita, l’1,2 in meno un bel problema: rischiava di costare un sottosegretario.
Alla fine, e si spiega perché dalle nostri parti il Gattopardo rimane un evergreen, siamo di nuovo lì: al vecchio inossidabile proporzionale, icona della Repubblica cantata dal compianto Rino Gaetano in “Nun te reggae più”. Ricordate? Dc-Pci, Psi-Psdi-Pli che, appunto, come l’intera dinastia Agnelli il cantautore non sopportava più. Cambiato l’ordine dei partiti, il risultato non cambia. Avanti tutta verso una legge elettorale, come tradizione declinata in latino, il “germanicum” che segue il “mattarellum”, il “porcellum”, l’”italicum” e il “rosatellum”, tutta proporzionale con soglia di sbarramento del 5% aggirabile con i soliti stratagemmi che vengono infilati in queste norme. La bocciatura della Consulta alla proposta referendaria di una schizofrenica Lega che oscilla dal “mattarellum” di cui sopra al maggioritario puro e anche duro come tradizione da quelle parti, spiana la strada ai voleri della maggioranza in carica che taglia le unghie alla mai sopita voglia di pieni poteri di Matteo Salvini. E celebra il definitivo funerale del mitico maggioritario, con buona pace dei tanti che hanno sbandierato promesse di sistemi che consentano di conoscere il vincitore la sera stessa della giornata di voto. A parte che questo sarebbe possibile solo se corressero due partiti, ipotesi assolutamente fantascientifica in Italia, ci avviamo verso un modello che richiede grande pazienza. Con il proporzionale puro, forse il più democratico tra i sistemi possibili, i vincitori si decidono in Parlamento come ai tempi dei governi Rumor tanto per capirci. E ci vuole tempo, trame da tessere e da disfare, colpi più o meno bassi, puro sano politichese d’antan. Il fondo, alla fine questo maggioritario abbozzato più che praticato forse perché temuto non è che abbia lasciato un gran che. Certo, obbligava le forze politiche a coalizzarsi e raggrupparsi per poter vincere, ma non ha mai garantito quella governabilità promessa. Perché in Italia, fatta la legge si trova sempre l’inganno. Bastava che l’eletto nella coalizione tale, una volta conquistato il posto al sole facesse i bagagli verso il gruppo Misto o addirittura fondasse un altro partito e il gioco era fatto. Quanti ne abbiamo visti così? Il fregolismo politico ai tempi della Seconda Repubblica era diventata una specialità di alcuni esponenti (Clemente Mastella ne è un maestro insuperato), pronti a balzare sul carro più conveniente che passava. Il problema non sono le idee ma le gambe su cui camminano, diceva più o meno quel tale. Perciò non si tratta tanto di scegliere il sistema elettorale giusto ma di eleggere persone adeguate. Che da un po’ di tempo, fatte le debite eccezioni che pure esistono e anche abbondano in certi casi, mancano nel nostro ceto politico.
@angelini_f
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