Quando a fine gennaio la notizia di una nuova epidemia virale ha cominciato ad occupare le pagine intermedie dei giornali di tutto il mondo, nessuno - virologi a parte - era in grado di percepire questa lontana emergenza cinese come una minaccia potenzialmente letale per la salute economica dell’Italia, quella fisica dei suoi cittadini e quella strutturale del suo eccellente sistema sanitario. Del resto, l’impatto mediatico piuttosto modesto ha contribuito a tenere virtualmente lontano il pericolo per tutta la prima metà di febbraio.
Verso il 20, però, tutto è cambiato. Un caso, due casi, tre casi. Un morto, due morti, tre morti. Pochi giorni e siamo arrivati sul podio dei Paesi più colpiti dall’epidemia di Covid-19 insieme a Cina e Corea del Sud. Pochi giorni, e il mondo ha cominciato ad isolarci con misure eccezionalmente rigide nei confronti dei nostri concittadini all’estero per motivi di lavoro o turismo, con ricadute fortemente negative per l’immagine dell’Italia e dei suoi prodotti. Improvvisamente, quella che inizialmente sembrava una questione remota, che, pensavamo, non ci avrebbe mai toccato da vicino, ha monopolizzato la vita sociale e lavorativa di ciascuno.
Dopo l’iniziale confusione, sono arrivati così i decreti del Governo, e con essi un perentorio appello alla responsabilità di ogni cittadino di fare il proprio dovere per evitare l’accelerazione di un contagio che ormai appare inarrestabile. Senza sapere se prendere la minaccia sul serio, per un po’ siamo andati dicendo a noi stessi che il nuovo virus non era nient’altro che una semplice febbre, solo leggermente più forte, e molti di noi hanno continuato a vivere come se nulla fosse. Siamo usciti, abbiamo fatto aperitivi, siamo andati a sciare. Ora, tuttavia, le disposizioni decise dalle autorità nell’ultimo, confuso fine settimana non lasciano spazio ad interpretazione alcuna: dobbiamo rimanere a casa, dobbiamo essere responsabili.
Mai avremmo pensato di vivere settimane più surreali di queste. Né tanto meno avremmo pensato che la nostra libertà di movimento, che è senza dubbio una delle cose più preziose che abbiamo, potesse essere compromessa da un avvenimento di questa portata. In questi giorni abbiamo capito quanto il legame tra noi e il consumo, tanto di prodotti quanto di tempo, sia indissolubile. Ma, soprattutto, abbiamo capito quanto sia difficile scegliere come utilizzare il tempo libero sia avendo l’opportunità di frequentare luoghi pubblici che in assenza di questa possibilità. Che fare? Forse è giunto il momento di leggere di più, di pensare, di riflettere. Ognuno farà come crede.
Di certo, però, è un momento perfetto per misurare le proprie emozioni, e credo che questa situazione abbia suscitato in ognuno di noi sentimenti e percezioni inedite. Del tutto italiane, potremmo dire. Di fronte ad un contesto con cui speriamo di non doverci confrontare ancora in futuro, alterniamo momenti di inerte e inconsapevole preoccupazione per quanto sta accadendo ad altri in cui sentiamo un’irresistibile voglia di pensare a come faremo a rilanciare il nostro Paese, mettendoci a disposizione della comunità per dissolvere la paura e abbattere l’irrazionale muro di falsi miti che il mondo ci ha eretto attorno.
Come tante altre realtà, e addirittura forse più di altre data la sua vocazione turistica, Como non è ovviamente immune all’inevitabile rallentamento che l’economia italiana (e mondiale) sta vivendo e vivrà nei prossimi mesi. Il rischio di fermarsi per un lasso di tempo indefinito esiste, è concreto e angosciante. Qualcuno dirà, con ironia, che è impossibile che Como si fermi, siccome è ferma già da più di vent’anni. Ebbene, in quanto giovane non mi interessa cosa Como è stata e perché si è fermata già prima dell’epidemia: ciò che mi interessa è cosa Como sarà, cosa vorrà diventare quando finalmente usciremo dall’emergenza.
Questo perché credo che le settimane di rallentamento forzato offrano al nostro Paese, ma ancor prima al nostro territorio, l’occasione perfetta per riflettere su come rilanciarlo quando il brutto incubo che stiamo vivendo finirà. Come aggiorneremo l’offerta turistica del nostro magnifico lago per far fronte a cambiamenti futuri e presenti? Quale sarà il ruolo di Como in Italia, in Europa e nel mondo? In che modo il tessuto produttivo locale farà fronte ai mutamenti delle catene globali del valore? Quanto dovremo investire in formazione, innovazione e ricerca? Come cambierà la città in rapporto alle sfide ambientali?
Sono soltanto alcune delle domande che penso dovremmo porci in questo difficile periodo. E se è vero che l’età avanzata costituisce un punto di debolezza in questo contesto, allora spetta a noi giovani fungere da motore di tale sforzo, civico ancor prima che intellettuale.
L’epidemia è un importante banco di prova per tutti i noi, un’insperata possibilità di riscatto per rinvigorire il nostro sopito senso di comunità. Di più: è un’occasione preziosa per creare una città diversa, migliore. Fermiamoci dunque, e ripensiamo Como.
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