Liberi dal lavoro, prigionieri della noia

La bomba atomica è stata sganciata dalla banca Goldman Sachs: l’intelligenza artificiale potrebbe sostituire nei prossimi dieci anni trecento milioni di posti di lavoro a tempo pieno.

E la cosa ancora più inquietante, per quanto logica, è che per la prima volta nella storia questa nuova formidabile tecnologia non promette di sgravare gli uomini dai lavori più faticosi, dai lavori manuali. Ma da quelli intellettuali. Chi spacca le pietre, stende l’asfalto o costruisce palazzi continuerà a farlo. Professionisti, commercialisti, contabili, addetti alle vendite e impiegati di ogni genere e modello rischiano seriamente - e definitivamente - di rimanere a spasso. Sono destinati a salvarsi solo i profili strettamente legati alla cura della persona (fisioterapisti, barbieri, cuochi…) o ad alto tasso creativo (compositori, artisti, traduttori, e quindi non certo giornalisti…). Una rivoluzione assoluta che farà saltare in aria la struttura sociale, già traballante di suo, nella quale viviamo oggi.

Naturalmente, in Italia la notizia - tutti presi come siamo dal flop del programma della De Girolamo, dalle polemiche sull’esportazione coatta dei migranti in Albania e dalla piattaforma programmatica della Schlein - è passata sotto silenzio o quasi. Ma al di là del catastrofismo di maniera, sottende un tema profondissimo che attraversa da sempre la storia dell’umanità. La fine del lavoro. La liberazione dal lavoro. Grazie alle tecnologie si è trovato il modo definitivo per far sì che gli esseri umani non siano più incatenati all’infernale galera che va dal lunedì mattina al venerdì pomeriggio e possano finalmente tornare - anzi, iniziare - a vivere.

Il tema è sdrucciolevole, infido e fanghiglioso come pochi altri. Innanzitutto per un mero aspetto pratico. Se l’intelligenza artificiale lavora al posto mio, io come mi mantengo? Come pago i conti? Come faccio la spesa? Evidente che in questo caso deve essere lo Stato (o uno sponsor?) a garantire in tutto e per tutto la sostenibilità economica dei singoli individui espulsi per sempre dal mondo del lavoro e di quelli che, in futuro, manco mai ci entreranno. È un tema antico, ma è anche un tema moderno molto caro ad Elon Musk, tanto per dire, e poi, per non dimenticarci delle nostre miserie, non è un po’ alla base del programma dei 5Stelle? Ma non solo, visto che l’ansia di mandare tutti in pensione prima, di prepensionare l’Italia intera, oltre che un basso calcolo elettorale, è una cultura che pervade ampissimi strati della destra e della sinistra. Siamo sempre lì. Il lavoro come male. Il lavoro come prigione. Il lavoro come disvalore da annullare, da screditare, possibilmente da eliminare. Quante volte ce lo siamo detti? Basta. Sono stufo. Non vedo l’ora di poter fare quello che voglio. Anzi, di non fare più niente.

Pensateci un attimo. Finalmente potremo accompagnare, mano nella mano, senza fretta, mariti e mogli al centro commerciale o al supermercato (sai le risate…), leggere saggi e romanzi (magari evitando gli ultimi vent’anni di premi Strega…), accarezzare le proprie passioni, passeggiare nel bosco, contemplare le stelle, correre, giocare a tennis, andare in palestra, coccolare il gatto, smanettare sui social, postare reel caramellosi su Instagram dove si fa marameo al tuo lui e poi andare al ristorante, al bar, al pub e apericena con gli amici (da spararsi…) e weekend a Camogli e rimpatriate con i compagni del liceo (una tristezza…) e vivere alla grande e dare vero contenuto, pieno senso alla vita, e soprattutto acquistare, acquistare, acquistare e poi consumare, consumare, consumare (tanto paga Pantalone…).

Insomma, un’eterna, diffusissima pensione globale anticipata grazie alla quale ci ritroveremo tutti quanti (bisognerà organizzare i turni…) a fare gli umarell davanti al cantiere delle paratie di Como o a quello della Lecco-Bergamo o a quello per il potenziamento della linea ferroviaria della Valtellina. Gli eterni pensionati del meraviglioso mondo dell’Occidente. A due passi da noi andranno avanti a scannarsi come fanno da duemila anni e noi tutti a dare l’acqua ai gerani.

Ci vorrebbe Edgar Allan Poe, o almeno Stephen King, ci vorrebbe il migliore Kubrick per rendere in maniera plastica un incubo del genere. Ma ci rendiamo conto? Ridotti a meri consumatori ottusi, bolsi e cellulitici, valangati da informazioni ritagliate su misura, succubi dell’algoritmo peggio che ne “Il mondo nuovo” di Huxley. Dei fuchi. Delle amebe. Delle zecche. Privati del tutto del senso, del concetto della responsabilità, della necessità di dover lavorare per poter difendere il proprio spazio nella società, del piacere che quasi tutti i lavori hanno, almeno in parte, di aver fatto una cosa, di aver fatto la “tua” cosa, di aver creato qualcosa, di aver costruito qualcosa di materiale o intellettuale. Insomma, di aver fatto un buon lavoro, che ti dia dignità e ti dica che pure quel giorno te lo sei guadagnato con le tue mani o con la tua testa. La figura del lazzarone, del fanfarone, del fanigottone c’è sempre stata, per carità, e ha pure una sua dimensione letteraria, ma è proprio perché tutti gli altri lavorano e si rendono indipendenti che ci accorgiamo che esiste e possiamo caratterizzarlo come esempio da non imitare.

E poi, è davvero così bello avere tutto questo tempo a disposizione per te stesso? Un tempo di fatto illimitato, che va dal mattino alla sera, dal lunedì alla domenica, da gennaio a dicembre? Il tempo per te non è bello se è poco e, di conseguenza, ti spinge a gustarlo al massimo grado? Siamo così certi che il tempo libero assoluto non si trasformi in noia? Quanto è noioso non avere niente da fare? Lavorare non è, in fondo, una partita a scacchi con il tempo - e quindi con la morte - nell’illusione di poterlo giocare, di poterlo ingannare? Anche se poi questa partita a scacchi - proprio come nel “Settimo sigillo” di Ingmar Bergman - è truccata. La morte vince sempre. Ma questo tema meriterebbe un altro, lungo discorso…

© RIPRODUZIONE RISERVATA