L’innocuo Zingaretti
vincitore e sconfitto

Da quando è arrivato Draghi, sembra di stare in una metafora della rivoluzione francese: le teste cadono di continuo.

Sia per volontà o meno del nuovo capo del governo, il vecchio Mastro Titta, quello che azionava la ghiglottina ai tempi, non si riposa mai.

L’ultima capoccia, a saltare, per fortuna solo in senso politico, è quella di Nicola Zingaretti. L’ha messa lui sul ceppo del boia perché non ne può più dei brontolii, delle manovre, delle trame dei maneggi, degli agguati e delle liti sulle poltrone che sono da sempre un marchio di fabbrica del Pd, anzi quasi una componente del suo Dna che, con ogni evidenza, contiene qualche difetto genetico.

Quanti leader si è tritato questo partito che, in fondo, tra le due culture che si sono fuse per farlo (mal) nascere ne contiene una, quella del vecchio Pci, in cui i numeri uno, a misura di quanto accadeva nel Pcus, il grande fratello sovietico di riferimento, restavano in carica a vita, oppure “saltavano” a seguito di clamorosi e drammatici rivolgimenti interni.

Da quando è nato il Pd, con Veltroni come primo leader si sono succeduti Franceschini, Bersani, Epifani, Renzi (due volte), Orfini, Martina (due volte).

Chi scrive questo pezzo non si fa remore nel confessare di aver dovuto ricorrere alla memoria digitale per ricostruire il valzer di poltrone ballato nei 14 anni di vita del Nazareno, mentre non fatica a utilizzare la propria per rammentare quelli, peraltro molti meno, in quasi 10 lustri del Pci, inteso come il “partito nuovo” rifondato da Palmiro Togliatti nel 1943.

Ma torniamo a noi e a Zingaretti che lascia, se davvero farà le valigie, da vincitore e da sconfitto. Ha preso in mano il Nazzareno dopo la fase discendente della montagne russe di Renzi, l’ha fatto recuperare alle urne e nei sondaggi, portato in tre governi e alla guida di parecchie città.

Ma ha perso la battaglia retroguardia per il Conte Ter e il tentativo di costruire un’alleanza tanto organica quanto indigesta a gran parte dei suoi con i Cinque Stelle. E poi è caduto nel tritacarne dell’esclusione delle donne dall’esecutivo, finendo addirittura per prendere lezioni da Berlusconi che magari un cicinino sessista lo è.

In realtà il povero Zinga, nella scelta della pattuglia ministeriale, è stato costretto a sfamare gli appetiti delle tre correnti ufficiali del Pd (altre ve ne sono più carsiche) e ha nominato i rispettivi capi che, per sua sventura portano i nomi di Dario (Francheschini), Lorenzo (Guerini) e Andrea (Orlando): tutti maschietti.

Caso mai a tagliar fuori il gentil sesso dai ruoli che contano, perciò, è stato il partito non il segretario. Il presidente della Regione Lazio, quella che sta bagnando il naso alla Lombardia sui vaccini, ha avuto il torto di andare troppo a rimorchio.

Anche di Matteo Renzi, ai tempi del ribaltone pentastellato che partorì il Conte due. Non va dimenticato che il leader del Pd era tutto fourché entusiasta di quella soluzione: avrebbe preferito andare a votare.

Ma fece buon viso a cattivo gioco e finì per rivelare quelle debolezze in cui, per la prima volta, cominciò a infilarsi Stefano Bonaccini, fresco vincitore della disfida emiliano romagnola con Salvini e accreditato a un’eventuale successione, che comporterebbe però un drastico cambio di linea politica del Pd con parecchi feriti sul campo.

Infine, Zingaretti si porta dentro il peccato originale di aver contribuito alla crescita politica di Conte. Sarà un caso che le dimissioni del leader del Pd siano arrivate, per ora solo via social, pochi giorni dopo la diffusione di un sondaggio che vede i Cinque Stelle con l’eventuale guida dell’ex premier tallonare la Lega come secondo partito, lasciando indietro il Pd? Come andrà a finire ora, nelle migliori tradizioni della casa del Nazareno, è un romanzo giallo scadente, non certo degno, come qualità di quelli del compianto maestro Andrea Camilleri trasportati alla grande sullo schermo dal fratello di Nicola, Luca, tenutario di gran parte del carisma di famiglia.

Tra correnti, donne, linee che ci sono e non, culture politiche che faticano da sempre a armonizzarsi, e autorefenzialità: quel rissoso, irascibile e carissimo Pd resta una nebulosa inesprorabile. Al punto che alla fine, Zingaretti, potrebbe addirittura succedere a se stesso. In fondo che fastidio dà?

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