L’inutile agitarsi
su un anno che finisce

Lev Tolstoj è passato alla storia della letteratura per alcune opere celeberrime, da “Guerra e Pace” ad “Anna Karenina”, passando per lo straziante “Resurrezione” e il piuccheperfetto “La morte di Ivan Il’ic”, solo per citare qualche titolo.

Ma nella sua vastissima produzione spicca anche un numero sterminato di racconti, che ne hanno accompagnato tutta l’evoluzione tematica e stilistica, dalla fase giovanile aristocratico-militare a quella utopico-evangelica della maturità. E fra questi ce n’è uno, probabilmente sconosciuto ai più, dedicato a un cavallo: “Passolungo”. Tolstoj, come tutti gli spiriti sensibili, amava gli animali, e in particolare amava moltissimo i cavalli, tanto è vero che Ivan Turgenev, osservatolo durante una passeggiata accarezzare e parlare con grandissima tenerezza a uno di loro al punto da “identificarsi con quell’essere disgraziato” gli aveva detto: “Sentite, Lev Nikolaevic, in un’altra vita voi dovete essere stato un cavallo”.

Bene, il breve racconto narra di un vecchio castrone, una volta formidabile puledro da corsa, ma ormai diventato un anziano ronzino di cui tutti nel branco si prendono gioco, dolce, mansueto, ingenuo, rassegnato, di una purezza talmente assoluta e talmente disarmante da ricordare quella del principe Myskin, protagonista de “L’idiota” di Dostoevskij, e della sua fine crudele. Il suo amato padrone, quella merda del principe Nikita Serpuchovskoj, che neanche si accorgerà di lui quando lo rivedrà tanti anni dopo - il cavallo lo riconosce, lui no - lo sfianca per un futile capriccio amoroso fino a renderlo inabile alla corsa e a farlo finire nel gruppo degli animali inutili. Quelli destinati a essere soppressi. Secondo gli uomini, Passolungo ormai non serve più a nulla. Lo sgozzano, lo scuoiano, lasciano il suo corpo martoriato in mezzo alla steppa, sul quale banchettano lupi, cani, uccelli e insetti. La pelle, le ossa e addirittura il cranio vengono presi e utilizzati da alcuni contadini. Nel giro di pochi giorni di Passolungo non resta più nulla, come se non fosse mai esistito. Ma ogni sua parte, ogni sua fibra, era servita a qualcosa. Tutti se ne erano sfamati. Tutti ne avevano preso un pezzo. E qui arriva la falce del grande scrittore russo: “Il corpo di Serpuchovskoj, che aveva girato il mondo bevendo e mangiando, fu messo sottoterra molto più tardi. Né la sua pelle né le sue ossa servirono a nulla”.

Uno si potrebbe domandare cosa diavolo c’entri un racconto semisconosciuto dell’Ottocento con la fine dell’anno del Signore 2024. E invece, i più accorti lo avranno già capito, c’entra eccome. Ci fa capire quanto i tradizionali, obbligatori e noiosissimi bilanci di fine anno dei media non contino nulla. Non c’è niente da analizzare, non c’è niente da considerare, non c’è niente da riflettere su quello che è accaduto e quello che accadrà, come se chissà quali novità imprescindibili ci aspettino e chissà quali notizie che cambieranno i destini del mondo ci attendano e come noi esseri umani del giorno d’oggi saremo modificati - e migliorati! - dagli eventi che si susseguono, ci incalzano e ci plasmano. Qualunque cosa accada, non accade mai niente. Perché tutto è già accaduto e tutto accadrà ancora. La cronaca, la cronaca dei giornali, è solo uno scontato eterno ritorno del sempre uguale. E nessuno migliora mai in niente.

Gli uomini non cambiano. La loro natura non cambia. Il loro breve, chiassoso e insensato giro sulla ruota del criceto, il loro ridicolo agitarsi sul palcoscenico giusto per un po’ prima di sparire per sempre continuerà anche l’anno prossimo e quello dopo e quello successivo. Senza ottenere alcun risultato. Senza evolversi, senza diventare più lungimiranti e, soprattutto, senza diventare più probi. Gli uomini, alla faccia di tutta la loro vanagloria e di tutta la loro sicumera, non sono all’altezza del compito che il buon Dio ha affidato loro nella notte dei tempi (e si è preso davvero un bel rischio il buon Dio, quel giorno sciagurato, a fidarsi di soggetti del genere, e mal gliene incolse infatti), non ne hanno il coraggio, l’intelligenza, l’onestà e quindi loro, i melliflui e fanghigliosi esseri umani, sono destinati a deludere tutte le aspettative. C’è sempre un momento in cui un uomo delude gli altri, li delude in maniera radicale e definitiva, parla quando dovrebbe tacere, tace quando dovrebbe parlare, si rivela arido e meschino e calcolatore, e soprattutto pensa solo a sé, a se stesso, a se stesso medesimo - in qualsiasi epoca della storia, in qualsiasi contesto sociale ed economico - mentre strabocca di tutti i difetti, di tutte le infamie e di tutti i peccati capitali che rappresentano la vera “cifra” degli uomini. Tutti. E che invece, ecco il punto, sono assenti negli animali. Tutti.

È per questo che Tolstoj amava così tanto i cavalli e disprezzava così tanto gli esseri umani. Il cristiano ed evangelico e caritatevole e utopico Tolstoj scolpisce nella pietra parole terribili, irridenti, definitive quando parla di loro: “E come già per vent’anni era stato un gran peso per tutti quel suo corpo che girava il mondo, così anche ora, morto, collocarlo sottoterra non fu che una fatica di più per la gente. Da molto tempo non era più utile a nessuno, da molto tempo era di peso a tutti, ma cionondimeno i morti che seppelliscono i morti trovarono necessario vestire quel corpo gonfio, che si corruppe subito, con una bella divisa (…) e disposero in una bara bella e nuova con quattro fiocchi agli angoli (…) quel corpo che marciva e formicolava di vermi, vestito con una uniforme nuova, gli stivali lucidi, e riempirono tutto di terra”.

Terribile, vero? Che differenza tra la nobile morte del purissimo Passolungo e quella lurida del suo stupido e arrogante padrone, vero? Quante cose ci insegna su ciò che siamo noi in questo crepuscolo d’anno, vero? È una pagina talmente perfetta, talmente profonda, talmente sconvolgente da far pensare che ci fosse Dio sopra Tolstoj mentre la scriveva e che fosse lui a guidargli la penna. Ed è andata così, probabilmente. Perché, come noto, Dio è molto difficile che si sbagli.

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