Di solito funziona così. Nel bel mezzo dell’estate iniziano a volteggiare schiere di prefiche piangenti, ululanti e minaccianti: e il disastro si avvicina e la crisi spazzerà via tutto e la cicala e la formica e la gente non arriva a fine mese e la gente non arriva alla terza settimana e la gente non ne può più e in autunno i disperati andranno in piazza e in autunno aspettiamoci sangue e arena e lo Stato dov’è e lo Stato cos’è e lo Stato non c’è.
E un poveruomo che tenderebbe a preservare un minimo senso civico e una minima cognizione della responsabilità sociale condivisa inizia a sentirsi un infame visto che, mentre gli italiani muoiono di fame, di sete, di inedia e di abbandono, ha avuto l’ardire di prenotarsi la bellezza di due settimane a mezza pensione a Cesenatico, invece di restare a casa a insaccare lupini e a cercare la cicoria al mercato nero in vista della carestia che si abbatterà certamente - così dicono i nostri cosiddetti statisti e i nostri cosiddetti media - con il primo cader delle foglie. E così, oppresso da mille sensi di colpa, attende l’inevitabile accadere del disastro: folle di diseredati che danno l’assalto ai forni, bande di ragazzotti gozzuti che sfasciano vetrine per arraffare salsicce e formaggi, vecchine scarmigliate che rovistano nei cestini della spazzatura alla ricerca di smozzichi di focaccia rancida, torme di orfani vestiti di stracci che implorano “pane, pane!”. Uno scenario orribile. Solo che uno pensa di essere in un film di De Sica padre e invece alla fine si ritrova dentro un film di De Sica figlio. Perché ogni benedetta volta non accade mai niente. La gente continua ad affollare beota e babbea spiagge, monti e campagne, a partirsene bel bella per il weekend alla faccia degli ammonimenti di tutti i nostri leader della prima, della seconda e financo della terza repubblica, che da non meno di trent’anni, nessuno escluso, continuano a profetizzare e a catechizzare e a catoneggiare e, soprattutto, a trombonare – naturalmente quando sono all’opposizione - sul disastro prossimo venturo che ci ridurrà tutti sul lastrico.
E la prova provata di questa situazione assurda sta proprio nell’evolversi delle dinamiche economiche e anche comportamentali in questi mesi drammatici sì, ma soprattutto paradossali, che sembrano dar ragione per l’ennesima volta al memorabile aforisma di Flaiano: “Causa maltempo, la rivoluzione è rinviata a data da destinarsi”. Insomma, come è possibile che gli italiani se ne vadano sempre tutti in vacanza? Come è possibile questo boom delle prenotazioni per agosto dopo mesi di clausura e, soprattutto, dopo aver visto scemare decine di migliaia di posti di lavoro, esplodere la cassa integrazione, incombere la chiusura di migliaia di aziende, crollare l’intero settore turistico e della ristorazione? E perché qualsiasi cosa accada di terribile nel Belpaese - crisi petrolifere, terrorismo, terremoti, alluvioni, recessioni, globalizzazioni, delocalizzazioni, pandemie, governi maldestri, governi inetti, governi grotteschi - poi alla fine la sempre minacciata carestia definitiva non avviene mai?
Insomma, voi avete mai visto - nei nostri ricchi territori, ma anche nel resto del paese, lasciando da parte migranti e clandestini, che meritano un discorso specifico - assalti ai supermercati di gente che salta i pasti? Avete mai visto persone morire letteralmente di fame? Avete mai visto gente senza scarpe o senza vestiti? Avete mai visto – pure in questa estate di virus, terrore e depressione – ristoranti, alberghi e villaggi turistici chiusi per totale assenza di clienti? E allora perché ogni anno ci dicono che invece è così? E come si concilia questa povertà, anzi, questa miseria diffusa e globale e strutturale e devastante, con il fatto che non ci sia famiglia che non abbia almeno tre o quattro smartphone da mille euro cadauno (trovate un ragazzino privo di cellulare griffato e vi regaliamo un abbonamento gratis alla Provincia)? E, soprattutto, come si concilia questo Belpaese dipinto come se stesse nelle identiche condizioni del Congo Belga o del Burundi con i quattromila e rotti miliardi di beni mobili (conti correnti, fondi eccetera) e i cinquemila miliardi e rotti di beni immobiliari in mano agli italiani, che ci rendono da sempre uno dei paesi più ricchi al mondo?
Scriveva giustamente qualche giorno fa Vittorio Feltri che è sempre la stessa menata: il convento è povero, ma i frati sono ricchi. Ed è proprio così. Da tempi immemori. L’Italia è un paese spassoso e incomprensibile, dove convivono uno Stato oppressivo, cialtrone e straccione, succube di un debito smisurato, reso ancora più mostruoso dalle vicende del virus, e una ricchezza privata diffusa da Guinness. È per quello che traballiamo sempre, ma non affondiamo mai. Troppa rendita. Troppe case di proprietà. Troppe eredità degli anni d’oro lasciate da nonni, genitori e parenti vari. Troppi stipendi certi a prescindere dal merito e dall’utilità. Troppe pensioni e prepensioni e sovvenzioni ed elargizioni. Troppi paracaduti. E poi troppo nero. Una enorme, smisurata, sterminata, onnivora bolla di lavoro nero e di evasione fiscale strutturale e di soldi che mai appaiono, ma che da sempre esistono e che funzionano da formidabile ammortizzatore sociale illegale che ti permette quasi sempre, nonostante i tanti casi di sofferenza economica, di gente che non ce la fa, di famiglie in crisi, di pagare comunque il mutuo, l’affitto e le bollette, di mandare i figli a scuola, di fare il pieno e la spesa. Certo, non di cambiare la macchina, di andare in ferie in un cinque stelle o di regalare un flamingo d’oro alla fidanzata, ma almeno di non finire con i cartoni sotto un ponte, come invece è norma nei civilissimi Stati Uniti.
L’Italia, piaccia o non piaccia, pure sotto Covid è questa roba qui: che nessun politico cervellone e nessun scienziato del giornalismo ce lo spieghi mai è un’altra bella domanda alla quale i più svegli di voi hanno già trovato la risposta.
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