Fra i tanti capolavori prodotti dalla letteratura mitteleuropea non c’è forse testo più malinconico e struggente dell’autobiografia di Stefan Zweig.
Ma quello del grande scrittore austriaco, intitolato “Il mondo di ieri”, non è il semplice racconto della propria vita e della propria carriera, intessute da viaggi, incontri e formidabili relazioni, da Hofmannsthal a Herzl, da Rilke a Joyce a Freud, quanto il ritratto di un’epoca scomparsa, il disvelamento di una vera e propria provincia dell’anima. Un libro magnifico, magnetico, pubblicato postumo, visto che l’autore si suicidò assieme alla moglie nel 1942, il giorno dopo aver inviato il manoscritto al suo editore, e che ha da tempo assunto la dimensione del classico, proprio perché parlando della fine dell’impero austriaco, della fine della stagione della borghesia e al suo interno della grande borghesia ebraica, a cui lui apparteneva, insomma, parlando della fine dell’Europa dell’Ottocento offre una chiave fondamentale per capire nel profondo l’Europa di oggi, la sua crisi, il suo caos, la sua nuova e prossima fine, ormai ben chiara all’orizzonte.
Il mondo di ieri di Zweig è, al netto di tutte le clamorose differenze e innovazioni partorite dal secolo breve, anche il mondo di oggi. La cosa impressionante a rileggerlo adesso, soprattutto nella prima parte, che regala pagine indimenticabili sull’era della sicurezza, del benessere e dello svago che ha informato di sé il vecchio continente a cavallo dei due secoli, beneficiato di un lunghissimo periodo di pace tra il 1870 e la prima guerra mondiale, è la totale inconsapevolezza di quello che stava fermentando e ribollendo nelle radici profonde dell’Europa. Nel suo cuore di tenebra. E di come tutta quella società favolosa, ricca, colta e raffinata credesse che quella era dell’oro non avrebbe avuto mai fine, che la guerra sarebbe stata bandita una volta per tutte dall’orizzonte e che le magnifiche sorti e progressive dello sviluppo economico, scientifico, sociale e culturale avrebbero dettato l’agenda con assoluta sincronicità per sempre. La fine della storia. Ben prima dell’infausta formula di Fukuyama dopo la caduta del Muro.
L’Occidente, i suoi valori, la sua cultura, le sue radici, i suoi orizzonti, il suo stile di vita, stava implodendo e nessuno se ne era accorto. Proprio come ora. Esattamente come ora. L’Occidente, i suoi valori, la sua cultura, le sue radici, il suo stile di vita, sta implodendo e nessuno se ne accorge. E chi se ne accorge, se ne frega. E comunque non gli interessa. Perché l’Occidente, l’Occidente cristiano (che noia!) ebraico (orrore!), liberale (vade retro!), basato sulla famiglia (che schifo!), sulle rappresentanze di intermediazione (tutti ladri!), sull’informazione (tutti servi!) non è più un valore, anzi, è un disvalore da cui allontanarsi, da ripudiare, da combattere, da azzerare. Non è così, forse, se analizziamo gli ultimi vent’anni di nuovi movimenti politici “che la gente è sacra, la gente ha sempre ragione” e “che la democrazia è lenta e inefficace”, di nuove mode culturali che pensano solo a cancellare il passato e le differenze di genere, di relativismo nichilista e conformista secondo il quale la vita (il suo inizio, la sua fine) non è un valore a prescindere?
Non è tutto ridotto al mero consumo, al mero svago, al mero tempo libero massificato secondo il quale l’apericena in riva al lago è un valore, il weekend a Camogli è un valore, l’ultimo modello di cellulare è assolutamente un valore, la difesa della tua identità invece no, né della tua storia, né dei tuoi principi? Quelli non servono, quelli non contano, quelli non importano.
Così come Zweig descrive con la sua penna abilissima l’indifferenza della buona società borghese rispetto a tutto quello che non la toccasse direttamente - ma d’altra parte gli esseri umani sono fatti così, agli esseri umani non interessa nulla della grande notizia che cambierà i destini del mondo, ma solo di quello che casca dentro il loro orticello, il loro microcosmo, il loro microscopico e ignobile spazio vitale - così adesso sembriamo del tutto insensibili nei confronti di un attacco preciso e pianificato in campo economico e anche militare a quello che siamo. Perché è questo ciò che è in ballo nel primo ventennio degli anni Duemila, dalle torri gemelle all’invasione dell’Ucraina al pogrom in Israele. La sopravvivenza di quello che siamo. Oppure la fine di quello che siamo. O che siamo stati, prima dell’ottundimento e del rimbambimento di massa provocato da ottant’anni di pace, di welfare e di benessere diffuso.
Dentro “Il mondo di ieri” ci sono pagine profetiche. Stava scoppiando la prima guerra mondiale e i villeggianti ridevano e chiacchieravano e brindavano e affollavano le spiagge. Stava per esplodere la seconda guerra mondiale e la folla di tutta Europa inneggiava e si commuoveva e festeggiava alla vista dell’inetto Chamberlain che si umilia davanti a Hitler firmando il patto del disonore, che il Fuhrer non avrebbe mai rispettato e che da lì a pochi mesi avrebbe precipitato l’Europa nell’abisso. Perché la folla voleva la pace, solo la pace, a qualsiasi costo, a qualunque costo, a qualunque prezzo. Non voleva vedere, non voleva pensare, non voleva fare altro che continuare a bere e mangiare e ridere e spassarsela e dimenticare. Vi fa venire in mente qualcosa, putacaso?
Zweig dedica a questi passaggi chiave della sua vita - e della nostra - riflessioni assolutamente impressionanti se le si confronta con lo spirito del tempo di questi anni. Non c’erano i talk show e i cellulari - beati loro - ma il resto è praticamente identico. Chiudere gli occhi di fronte a quello che si prepara e a quello che ti aspetta è tipico degli imperi decadenti. Cose nuove e forze nuove si approntano e prima o poi prenderanno il loro spazio, come è sempre successo, lasciando a noi, ottusi, pavidi e cellulitici epigoni di una grande cultura, solo la vergogna di una resa da mantenuti e da miserabili.
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