Ci sono tanti colpevoli nella tragica vicenda del giovane ucciso da un orso in Trentino: il programma di ripopolamento ideologico e sfuggito di mano, i proclami sterminatori ed elettoralistici del presidente della Provincia, il talebanismo animalista che sarebbe capace di bloccare una nuova autostrada per la salvaguardia della raganella muschiata di Cantù-Cermenate e, per finire in gloria, il giornalismo straccione che riesce a inventarsi uno scontro tra destra e sinistra pure in questa occasione.
Tutti colpevoli. Tutti quanti. Tranne uno. Perché l’unico innocente in questa disgrazia, oltre al povero runner, naturalmente, è proprio l’orso Jj4. Il tema è complesso, aggrovigliato come lo gnommero di Gadda, tanto è vero che pure tra gli esperti del settore - etologi, scienziati, antropologi - ci sono opinioni molto contrastanti e addirittura contrapposte. Figurarsi come ci si può raccapezzare una persona comune sconvolta dallo choc di un episodio che la pone di fronte a un interrogativo fino a oggi impensabile: si può andare a fare una passeggiata nel bosco dietro casa - qui, in Italia, non nel Serengeti - e finire sbranato. Inaudito, davvero. Intollerabile, al solo pensiero di cosa stanno provando i familiari, gli amici, la comunità e di come questo fatto cambi la nostra visione delle vacanze in luoghi che abbiamo sempre ritenuto sicuri proprio perché domestici. Tutto vero. Tutto certo. Tutto umanissimo. E quindi dobbiamo procedere immediatamente all’abbattimento dell’orso “problematico”, pratica che in Slovenia viene effettuata regolarmente e con ottimi risultati di gestione, anche commerciale, della presenza dei plantigradi.
Eppure, passata l’onda emotiva, resta la sensazione che qualcosa non vada. C’è qualcosa che non torna. E che si lega ai fatti accaduti, ma anche e soprattutto a una dimensione culturale, antropologica di una figura come quella dell’orso e, ancor di più, del lupo, veri e propri cardini della nostra coscienza sommersa, della nostra identità più profonda, inconscia, mitica, che chiunque abbia avuto l’occasione di vedere un lupo dal vivo ha vissuto come una folgorazione. Non c’è nulla di più magnetico per un europeo, per un italiano, dell’incontro con il lupo: è come un ritorno alle tue origini, alle tue radici ataviche. Pauroso e indimenticabile.
Ma queste sono chiacchiere. Resta il fatto che quello è il primo uomo ucciso da un orso da centocinquant’anni e che l’ultimo attacco mortale di un lupo a una persona risale alla metà dell’Ottocento. Resta il fatto che secondo le prime ricostruzioni il giovane è uscito dal sentiero ed è finito causalmente addosso all’orsa o più probabilmente a uno dei suoi figli e quindi, come ha scritto giustamente la madre, non è stata colpa sua e neppure dell’animale, ma della pessima gestione del progetto di ripopolamento. Resta il fatto che, contrariamente agli States e alla Slovenia, non è mai stata fatta informazione chiara e diffusa a residenti e turisti di come ci si comporta in un ambiente dove sono presenti dei predatori e dove quindi si possono fare tante cose, ma non tutte. Resta il fatto, soprattutto, questo il vero punto, che noi non abbiamo un rapporto sano con la natura. Il nostro è un rapporto idillico, irrealistico e manicheo, che idealizza una natura che non esiste, una natura da salotto, una natura pret-à-porter, che paradossalmente contagia sia gli animalisti duri e puri e ottusi, per i quali gli insediamenti umani sono un fastidio, sia i politici tipo il presidente della Provincia, che vuole boschi privi di pericoli, anzi, una natura priva di pericoli. Che semplicemente natura non è.
La natura, quella vera, è una cosa brutta. Una bestia feroce e terribile e spietata. Non esiste welfare in natura. Chi è forte vive, chi è debole muore. Ed è guidata da due soli motori immobili: la sopravvivenza del singolo e la sopravvivenza della specie. Punto. E proprio per questo l’animale - e a maggior ragione il predatore - attacca solo per fame o per difesa personale o del capobranco o del territorio o della prole. Non lo fa anche il nostro cane? E quindi l’orso è un pericolo sempre, a prescindere, non solo Jj4, ma anche gli altri esemplari “caratteriali” già censiti e potenzialmente tutti gli altri. E quindi tutti devono essere abbattuti. Ma proprio tutti.
E poi ci sono i lupi, sempre più numerosi anche loro, che mangiano pecore, capre, asini eccetera e quindi anche loro devono essere sterminati. Tutti. E poi ci sono i cinghiali e i cervi che devastano i campi e i raccolti e quindi bisogna abbattere pure loro, visto che senza lupi e orsi - ma dai? - nessuno ne riduce il numero. E poi ci sono le vipere, pure loro pericolose per l’uomo, anche loro da uccidere. Tutte. E poi le api e le vespe e i calabroni: quanta gente ha perso la vita durante una passeggiata in montagna per una piccola puntura? E poi ci sono i topi che portano le malattie e gli squali nel mare e pure le meduse e, non dimentichiamo, le zanzare, che sono da sempre il primo killer del pianeta. E poi bisogna vietare, sempre nei nostri boschi, i sentieri: quanti morti contiamo ogni anno di gente partita per cercare funghi o castagne e poi finita in un crepaccio? E vietare anche le valanghe, che di sciatori ne falciano a decine, e i fulmini estivi e le frane autunnali... E via così, di paradosso in paradosso, uno dopo l’altro, fino all’estinzione per decreto di tutto quello che ci può minacciare, ci può fare del male, ci può uccidere, addirittura.
Un bel bosco vuoto, una bella foresta vuota, completamente vuota, a immagine e somiglianza di uno stucchevole paesaggio di un pittore della domenica o di una réclame pubblicitaria o di un’esperienza nel metaverso. E tutta pace e benevolenza e amore e fiorellini sbocciati e alberi bucolici e tenere caprette (attenzione però, pure loro infestano e distruggono) che pendono dalle colline e donzellette che vengono dalla campagna e tutto il resto della Disneyland nella quale non vediamo l’ora di rinchiuderci.
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