Un secolo di positivismo, diceva giustamente Ennio Flaiano negli anni Sessanta, e quindi in tempi assolutamente non sospetti, ci ha insegnato a dubitare delle verità dimostrabili. Il secolo in questione coincideva in buona parte col cosiddetto “secolo breve”, il Novecento, coi suoi innumerevoli abissi e orrori, che avevano messo fortemente in dubbio grandi idee come il progresso, il ruolo e la funzione del “popolo”, la perfettibilità umana e la ragione quale principale strumento conoscitivo.
Questi ultimi sessant’anni, col crollo delle ideologie e dei grandi inquadramenti storici, e con l’imporsi a livello planetario di un modello di vita e di un pensiero unico venduto e smerciato come la più naturale e incontestabile ovvietà, hanno trasformato in certezze i dubbi sul progresso, la perfettibilità umana e la supremazia della ragione. E nello stesso tempo hanno messo fortemente in dubbio un concetto ritenuto da sempre inoppugnabile, quello di realtà. Ma a dire il vero i grandi scettici del Novecento lo avevano già capito, o almeno intuito: Vladimir Nabokov, ad esempio, aveva detto che nell’epoca della tecnologia e della frammentazione dei saperi e delle conoscenze, la realtà si era talmente screziata e disarticolata che ormai la si poteva definire soltanto per sottrazione, mai per addizione, e comunque sempre tra virgolette. La “realtà”, insomma, non la realtà. E siccome anche la vita , intesa in senso lato come esistenza, e cioè come processo biologico del nascere vivere e morire- fa parte della “realtà”, la vita stessa è diventata qualcosa di sfuggente, che si può definire più per sottrazione che per addizione. La “vita”, insomma, non la vita.
In tempi di virus, quarantena e reclusione forzata, e mentre si sta verificando il totale stravolgimento di coordinate esistenziali che uno sciagurato ottimismo -troppo corrivamente accettato- ci aveva insegnato a considerare eterne e immutabili, anche i dubbi relativi alla “realtà” si stanno trasformando sempre più in certezze. O meglio, in una certezza: che la si scriva tra virgolette o senza virgolette, “realtà” o realtà, l’essere umano molto semplicemente non la sopporta. Soprattutto quando è troppa, come in questo periodo.
«L’uomo non sopporta troppa realtà» è una celebre frase di Thomas Stearns Eliot, che fino a qualche settimana fa poteva essere considerata molto bella e poetica, ma rimaneva confinata nell’ambito della letteratura: un elegante aforisma, una profonda massima di saggezza da esibire in qualche small talk, una sentenza molto chic da mettere in calce a qualche “post” su un social-network, ma nient’altro, soprattutto nella misura in cui non se ne capiva (non se ne poteva capire, forse) il significato più profondo, recondito, vertiginoso. E invece in questi giorni stiamo capendo un po’ tutti cosa significhi la “troppa realtà” e perché sia così difficile sopportarla.
Perché quando spariscono i panneggiamenti, quando crollano tutte le idealizzazioni, gli autoinganni e automatismi, le finzioni, le proiezioni immaginative, quando vengono a mancare tutte le ritualità e messinscene sulle quali si reggono i traffici sociali, quando si incrinano le ovvietà alle quali si deve credere per fare in modo che la vita quotidiana funzioni come una macchina, allora l’essere umano -sia come individuo singolo che come collettività- si ritrova completamente nudo e disarmato. E non di fronte al “destino” oppure alle grandi questioni metafisiche o ancora alle cose ultime (il silenzio di Dio, il perché di tutto questo), ma di fronte alla propria piccolissima “vita” quotidiana in una “realtà” che lo impaurisce, lo angoscia, lo sovrasta e infine lo priva di tutte le idealizzazioni che, a seconda delle inclinazioni, riducono il peso della realtà stessa o in ogni caso non la rendono “troppa”: il lavoro, il tempo libero, gli interessi, le passioni, i progetti per il futuro. Tolto tutto questo, rimane un solo dato di fatto: la vita è una cosa che non si sa bene cosa sia, e la “troppa realtà” non è altro che il tempo che passa. E che non va da nessuna parte. Forse è l’unica democrazia veramente compiuta, perché di fronte a questo dato di fatto siamo più o meno tutti uguali, dai tirannosauri dei profitti e dei fatturati all’ultimo dei derelitti.
In uno splendido e terribile passo del “Viaggio al termine della notte” di Céline, libro tanto sgradevole quanto imprescindibile, che oggi più che mai, quasi un secolo dopo la sua pubblicazione, si rivela come l’autentica discesa agli inferi di questa nostra epoca, c’è un medico che inneggia alla guerra, sostenendo che la guerra stessa fornisce un grande ausilio alla scienza perché rivela l’autentica sostanza del nostro sistema nervoso. Sembrano parole farneticanti, soprattutto se si intende il termine “guerra” nella sua accezione tradizionale. Ma in realtà il medico, che tra l’altro è l’alter ego nemmeno troppo nascosto dello stesso Céline, intende la “guerra” nella sua accezione più ampia, quella che oggi ci appare sotto forma di un nemico invisibile, dei cortei militari che trasportano le bare lungo autostrade deserte, dei bollettini quotidiani dei contagi e dei morti negli ospedali. E allora, lette e comprese in questo modo, le sue parole assumono un altro significato, che poi è il significato autentico: la “guerra” (il virus) ha squarciato un velo, mostrando in maniera definitiva che il quadro clinico dell’essere umano è da sempre fortemente compromesso. Se “tutto è biologia”, come Céline ha sostenuto più volte, ed è difficile dargli torto, l’uomo è l’essere più debole del regno animale, proprio a causa dell’estrema complessità del suo sistema nervoso, che non sopporta scosse troppo forti. E’ uno dei grandi tabù della cultura moderna, e magari questa catastrofe contribuirà a sfatarlo. Céline, da parte sua, lo aveva già fatto in un altro grandissimo romanzo, “Guignol’s band”, quando ha scritto: «La Verità è la morte… Io ci ho lottato come si conviene, finché ho potuto… l’ho mazurcata, tangata, imbaldoriata… Ahimè, so bene che tutto si sfascia, cede, molla a un certo punto… E tutte le menzogne sono dette…».
© RIPRODUZIONE RISERVATA