Peggio di Donald Trump ci sono solo quelli della destra italiana che rosicano, recriminano e si attaccano a ogni pretesto per non riconoscere la sconfitta. Perché oltre a domandarsi, con Giorgio Gaber, cos’è la destra, viene anche da chiedersi cosa c’entra il plutocrate Usa (ricordate le plutodemocrazie di benitiana memoria?) con una tradizione politica, per quanto in tutti i modi soffocata dalle nostre parti, che dovrebbe contenere i caratteri del liberalismo e della democrazia. Il possibile ex coniuge di Melania vi pare un democratico o liberale? Beh. Va bene essere contro Biden, per cui è già partito il circo della dietrologia con Soros, i poteri forti, le multinazionali, la Cia, la Zia, Aspen eccetera. Però il neo uomo più potente del mondo somiglia più a Nonno Libero che non a Carlo Marx.
Insomma la nostra destra o presunta tale si porta dietro questa maledizione dai tempi di Luigi Facta da Pinerolo, l’ultimo esponente liberale a guidare un governo che, oltre ad aprire le porte al Benito di cui sopra, segnerà per sempre la sorte del liberalismo nel nostro paese. Una tradizione che partita da Cavour e terminata, dopo il ritorno alla democrazia in Italia, con Malagodi, Zanone e Altissimo, alfieri di un partitino che non è quasi mai arrivato al 5% come un’Italia Viva qualsiasi. Questo anche perché se la destra destra era rappresentata dai nostalgici del Msi, i residui dell’idea del libero mercato e persino della laicità dello Stato erano abilmente shakerati con lo statalismo nella Dc. Caduto il Muro di Berlino, i nostri “lib” si sono infatuati di Berlusconi, un Trump ante litteram, sceso in politica anche perché vedeva minacciata dalle sinistre uscite indenni dal crollo di quel Muro di cui ieri ricorreva l’anniversario, la sua posizione duopolisita nel settore delle televisioni. Il Cavaliere dopo essere baloccato un po’ con i vari Martino, Urbani e Pera, ha capito che il liberalismo non gli conveniva.
Un tentativo di spostare la situazione lo aveva fatto Gianfranco Fini, depurando a Fiuggi i residui nostalgici, ma la sua svolta è finita assieme a lui a cui è mancato il coraggio, che si sa uno ce l’ha o non ce l’ha come ricorda il Manzoni, di sfidare in maniera aperta Berlusconi per leadership del campo moderato che magari davvero avrebbe potuto mostrare le stigmate di una liberaldemocrazia sul modello anglosassone, peraltro in crisi come tutti gli schemi della politica tradizionale. Ma se non fosse arrivato il cognato con la casa monegasca ad affossarlo del tutto, anche il fondatore di Alleanza Nazionale sarebbe stato intruppato nella pattuglia dei tanti “Principi Carlo” in vana attesa della successione al Silvio che ha più vite di un intero gattile. Insomma la destra che avrebbe dovuto essere è rimasta un’Araba Fenice speculare peraltro, a quella sinistra socialdemocratica modellata sul socialismo europeo anch’esso mandato in crisi dalla globalizzazione, naufragata a colpi di “Cose”, faide, rifondazioni e nostalgie anch’ esse un po’ stucchevoli. Si pensava che finita la Dc, caduto il “fattore K”, inventato da Alberto Ronchey per spiegare l’impossibilità di imbarcare il Pci al governo nel tempo della guerra fredda, il nostro paese si uniformasse al resto del Continente. Invece sono arrivati solo sottoprodotti dei grandi filoni della politica, una categoria alla quale rischia di iscriversi anche il Pd se non deciderà cosa vuole davvero essere da grande. A destra poi il sovranismo ha rimescolato di nuovo le carte: anche qui ci sarebbe da capire che c’azzecca con la tradizione liberal.Ciò detto resta la domanda da inoltrare ai destrorsi, liberali alle vongole: cosa c’entra Trump con Cavour?
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