Era il tardo settembre del 2018 quando, affacciandosi al balcone di Palazzo Chigi, l’allora vicepremier Luigi Di Maio annunciò che il governo, approvando l’aggiornamento del Def in modo da includere il Reddito di cittadinanza, aveva “abolito la povertà”. Parole forti, pronunciate nel trionfo del momento, e pericolosamente arrischiate. Primo perché – e Di Maio avrebbe dovuto saperlo - tenere discorsi roboanti dai balconi di Roma non porta bene e poi anche per la ragione che la povertà accompagna l’uomo fin dalla sua comparsa sulla Terra e non basta venir su da Pomigliano d’Arco, o da qualunque altro luogo, per dichiararne l’estinzione.
Se dunque è impossibile estirpare la povertà, l’ambizione del consorzio sociale, che include la politica ma la supera in estensione, dovrebbe essere almeno quella di limitarla. Ci piacerebbe constatare come, anno dopo anno, la povertà declini, si attenui, conosca sconfitte, se non epocali e definitive come quella erroneamente annunciata da Di Maio, almeno statisticamente rilevanti. Sarebbe un segnale chiaro e inequivocabile che la società, pur con le sue contraddizioni spesso insanabili, i suoi difetti genetici e la sua imprevedibilità generale, sta muovendo qualche passo nella giusta direzione.
Invece non è così, perché i numeri dicono che la povertà aumenta, non diminuisce. Da pochi giorni lo ha certificato l’Istat: 5,7 milioni di italiani vivono in condizioni di povertà assoluta. L’espressione “povertà assoluta” potrebbe trarci in inganno, evocando immagini catastrofiche di miseria fatale, come nei vicoli delle grandi città asiatiche o africane, e convincerci che nulla del genere, qui, è possibile. Errore, perché con povertà assoluta si intende qualcosa, è vero, di diverso, ma non di meno drammatico: l’impossibilità a disporre delle risorse minime per garantire a persone e famiglie le necessarie spese di sostentamento, quelle per acqua, cibo, abitazione, riscaldamento. Povertà assoluta, dunque, ma anche, e con espressione forse più vicina alla realtà, “povertà vera”.
L’analisi dell’Istat è spietata: vive in povertà assoluta l’8,5 per cento delle famiglie. Il dato, valido per il 2023, peggiora la rilevazione già drammatica del 2022, quando si fermava all’8,2 per cento. Altri numeri aggiungono alla sconfitta sociale i contorni della catastrofe; le stime mettono in luce un peggioramento della condizione delle famiglie che hanno come persona di riferimento (capofamiglia) un lavoratore dipendente: l’incidenza di povertà raggiunge il 9,1 per cento. Ancora più raggelante il fatto che la presenza di un minore è un fattore che espone maggiormente le famiglie al rischio della povertà: i minori che vivono in nuclei famigliari ridotti in povertà assoluta sono 1,2 milioni.
Queste cifre denunciano una crisi non soltanto imminente, ma anche a lungo corso. Dicono che il lavoro non è garanzia di sostentamento e che avere figli è, letteralmente, un lusso. Dicono anche, tra le righe ma non più di tanto, che i conflitti sociali sono destinati ad accrescersi, non ad attenuarsi, che la pancia (vuota) determinerà il tono e i contenuti del dibattito pubblico, che il rischio di un’educazione scadente o almeno lacunosa investe larghe frange delle giovani generazioni. Dicono, in sintesi, che la società tutta poggia su un terreno friabile, incline alla frana, al crollo rovinoso. Tanto più che, a differenza di un tempo, la povertà oggi non è più neppure riconosciuta e dunque combattuta con le armi della solidarietà. Chi è povero è dunque sempre più spesso anche solo.
Riconoscere la povertà come un male da combattere con vigore è diventato faticoso, in un momento storico in cui la comunità è costantemente distratta da virtuali specchietti per le allodole che permettono agli individui di vedere solo quello che vogliono vedere tenendo a distanza tutto il resto. I numeri dell’Istat sono però uno specchio oggettivo e guardarli in faccia senza paura sarebbe un atto di civiltà, il primo valore da ritrovare davanti alla sofferenza altrui.
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