Ai tempi di un altro calcio, c’erano squadre per cui, in certi momenti, tifavano quasi tutti, a prescindere dalla provenienza geografica. Tra loro il Bologna e la Fiorentina di Fulvio Bernardini, il Verona di Osvaldo Bagnoli, la Sampdoria di Vujadin Boskov, ultima a godere di questa straordinaria condizione. Ma quella più tifata di tutte è stata il Cagliari dell’allenatore filosofo Manlio Scopigno e di Gigi Riva, con la maglia che si chiudeva con dei lacci sotto il collo e aveva i quattro mori, simbolo della Sardegna, come stemma. Cos’hanno in comune queste squadre? Sia detto a beneficio delle generazioni che non hanno ricordi in bianco e nero. Sono state le uniche a vincere lo scudetto senza far parte del club delle grandi che comprendeva Juventus, Inter, Milan, ma anche Torino, Roma e Lazio. E per questo, appunto, potevano contare sul tifo di tutti. Perché poi quello era il calcio cantato dallo scrittore Uruguagio Edoardo Galeano, in cui un “nero piccolo e stortignaccio, poteva sovrastare un ariano grande e statuario”. Un calcio certo più democratico di quello odierno. Giggi (con la doppia in lingua sarda) Riva era un altro ricordo in bianco e nero che da ieri non c’è più. Se n’è andato dopo un breve ricovero a Cagliari per un malore avvertito in casa. È fuggito in un lampo, non a caso il soprannome che gli aveva regalato Gianni Brera era “rombo di tuono”. Perché Riva, nato a Leggiuno, nel Varesotto, ma sardo e non solo di adozione, era potente e secco come un tuono, quando con il suo sinistro castigava i portieri avversari.
Pensate che con tutti i record che sono caduti, il suo, quello di miglior marcatore della Nazionale azzurra, resiste ancora dopo 50 anni. Nonostante Riva, a causa dei ricorrenti gravi infortuni che hanno accompagnato la sua carriera, non abbia poi accumulato le presenze dei suoi successori, peraltro fior di campioni. Riva segnava quasi sempre, con la maglia del Cagliari così come in azzurro. Ed è chiaro che ogni gol con la sua principale e praticamente unica squadra di club valeva molto di più. Perché segnato appunto, con la maglia di una “provinciale” come si chiamavano allora i club meno quotati.
Riva è un altro pezzo di quel calcio che ha avuto senso e fortuna conoscere, ma forse non bisogna rimpiangere perché non tornerà mai più. Lombardo, ma con un carattere davvero adattabile alla Sardegna. Chiuso di poche parole e ancor più rari sorrisi, destinato a diventare simbolo dell’isola dopo aver rifiutato le offerte di Juventus, Milan e Inter disposti a svenarsi per i suoi gol.
Dal Cagliari campione d’Italia del 1970 quasi tutti se n’erano andati per star meglio sia per i risultati sportivi sia per quelli economici: da Albertosi a Domenghini a Bobo Gori a Zignoli. Lui no, era rimasto nella terra in cui aveva trovato l’amore di una donna, allora proibito, sul quale aveva mantenuto il suo tipico riserbo. La sua altra casa era la Nazionale. Anche qui non era normale che il principale attaccante non fosse espressione delle squadre più quotate. In azzurro ha vinto meno di quanto meritasse: il campionato europeo del 1968. È entrato però nel tabellino della “Partita del secolo”, Italia-Germania 4-3 a Mexico 1970.
E con la maglia dell’Italia in un partita contro l’Austria, ha subìto uno degli infortuni più terribile: l’entrata di un difensore gli aveva distrutto una gamba. Alla Nazionale è poi tornato, in epoca più recente, come dirigente.
Ciao Gigi, adesso il rombo del tuo tuono si sentirà in cielo.
© RIPRODUZIONE RISERVATA