Una nave carica di container salpata dalla città-stato asiatica di Singapore deve percorrere 15.600 chilometri per attraccare al porto Rotterdam, in Olanda. Questo se passa per la via più breve che unisce Asia ed Europa, cioè il Mar Rosso e poi il Canale di Suez che si immette nel Mediterraneo. Se la stessa nave partita da Singapore è costretta a circumnavigare l’Africa passando per il Capo di Buona Speranza, i chilometri da percorrere verso Rotterdam diventano 21.700, con 9-14 giorni aggiuntivi di navigazione. Vale per le navi che trasportano ogni giorno petrolio, gas e diesel di cui siamo dipendenti, o prodotti elettronici, giocattoli, vestiti dall’Est, inclusa la Cina cioè la “fabbrica del mondo”. E naturalmente vale per le navi cariche dei beni che noi esportiamo.
Poiché attraverso l’area del Mar Rosso transita dunque il 40% del commercio tra il nostro continente e l’Asia, e il 40% del commercio marittimo internazionale dell’Italia, si può intuire la gravità della destabilizzazione di un “choke point” come lo “stretto” di Bab al-Mandab che congiunge Golfo di Aden e Mar Rosso. E proprio a una destabilizzazione puntano gli attacchi lanciati da alcune settimane dagli Houthi contro le navi in transito di fronte allo Yemen, ufficialmente – ha fatto sapere il leader sciita Abdel Malek Al Houthi – a sostegno della causa dei Palestinesi dopo l’eccidio di Israeliani il 7 ottobre. La crisi ha già spinto importanti società energetiche o di trasporti a evitare la rotta marittima più breve. Di conseguenza grandi aziende con stabilimenti in Europa come Tesla e Volvo hanno comunicato che sospenderanno per alcuni giorni le attività a causa dei ritardi subiti dalla filiera di approvvigionamento.
Quanto dovremmo preoccuparci di tutto ciò noi Europei? Abbastanza. Il tempo infatti è denaro, anche per chi trasporta merci; di conseguenza maggiori rischi o rotte più lunghe hanno già spinto verso l’alto la tariffa media per il trasporto di un container dalla Cina all’Europa del nord, salita da 1.500 a 4.000 dollari.
Allo stesso tempo la quotazione del petrolio venerdì scorso ha segnato un brusco rialzo. Per il momento è eccessivo prevedere un nuovo balzo dell’inflazione, considerato che durante la pandemia la movimentazione di un container tra Asia ed Europa era arrivata a costare 14.000 dollari. Inoltre, il contributo della logistica al costo totale di produzione di tanti beni è più contenuto rispetto al costo dell’energia che era schizzato verso l’alto dopo l’invasione dell’Ucraina. Tuttavia molti analisti scommettono che una crisi come quella attuale, se prolungata nel tempo, potrà frenare il calo dell’inflazione cui stavamo finalmente assistendo in Europa.
Soprattutto, però, a preoccupare gli Europei dovrebbe essere il fatto di trovarsi di nuovo di fronte a uno shock originato immediatamente fuori i confini del Vecchio continente, sul quale sembriamo per ora esercitare poca o nessuna influenza (nonostante il pressing degli Stati Uniti), e che danneggia in primis la nostra economia reale. Non sarebbe d’altronde la prima volta, come ha spiegato due giorni fa Mario Draghi al collegio dei Commissari Ue: dal 2016 abbiamo assistito a una serie di fatti nuovi – dall’elezione di Donald Trump all’affacciarsi prepotente della transizione green, dall’avvento dell’intelligenza artificiale alla guerra in Ucraina – che hanno confermato “le fragilità del Vecchio Continente, non solo dal punto di vista economico ma anche in termini di modello geopolitico”. Se come Unione non ci riapproprieremo della fantasia e della volontà di incidere nel mondo, almeno quello a noi più vicino, non ci sarà “mercato interno” o “potenza normativa” che tenga per garantire il nostro benessere.
© RIPRODUZIONE RISERVATA