Benvenuti a Como, la città senza tempo. Eh sì, oggi il cantiere delle paratie spegne la sua quindicesima candelina. È diventato adolescente senza averlo previsto perché, stando alle varie road map, avrebbe dovuto a malapena superare lo svezzamento. Niente in confronto all’ex Ticosa, che lo scorso anno, è entrata negli “anta”, quell’età in cui si va un po’ crisi, non fosse che l’area che accoglie i visitatori che arrivano in città da sud, in cerca di identità lo è da tempo.
Due simboli, le paratie e l’ex tintostamperia, di qualcosa che non funziona nel Dna di Como, nella sua politica. E non è neppure una questione di colori perché sulle due opere hanno pestato il muso sia il centrodestra sia il centrosinistra. Sarà mica per questo che alla fine è spuntato Rapinese con la sua lista civica a fare carne di porco dei partiti? Già, soprattutto nel caso delle paratie. Un’opera che ha segnato in maniera determinante il destino di due giunte: quella bis del forzista Stefano Bruni e quella di colore opposto guidata da Mario Lucini.
Nel frattempo è cresciuta una generazione che ancora non sa, se non attraverso immagini d’epoca, cos’era il lungolago di Como prima dell’arrivo delle ruspe. E ha visto deperire i cartelli, piantati con troppo ottimismo proprio dall’amministrazione di Bruni che narravano l’opera come fosse già di fatto terminata. Invece c’erano state tante peripezie, su tutte quella del muro, una vicenda su cui forse non ci hanno raccontato tutto, che però ha segnato in maniera emblematica il cantiere. Una barriera che, se ultimata, avrebbe separato per sempre la città dal suo lago. E per fortuna c’è stato un “umarell”, Innocente Proverbio, grande appassionato dell’eterno cantiere ad accorgersi dello scempio e a segnalarlo a questo giornale che per una volta è stato utile ai comaschi non solo per incartare le uova. Perché la campagna de La Provincia aveva spinto l’allora presidente della Regione, Roberto Formigoni, a impugnare un immaginario piccone per tirar giù la barriera. Il vostro quotidiano preferito aveva dovuto poi intervenire ancora per far sparire, con le cartoline e i lucchetti (un gioco di squadra tra noi e i lettori) le barriere che ancora una volta oscuravano la visione del lago più bello del mondo.
Il fallimento della politica locale sul cantiere è stato sancito dal passaggio di consegne dell’opera dal Comune alla Regione Lombardia che, bene o male, ne sta venendo a una. Non è stato un transfert indolore. Perché è difficile non associare la fine dell’egemonia del centrodestra (che qui aveva il suo Mugello) al fallimento del Bruni bis sulle paratie. Certo altre erano state le nefandezze, anche qui entra in gioco la Ticosa, con la demolizione in pompa magna e fuochi d’artificio di cui sono rimasti solo il ricordo e le macerie. Ma il lungolago è stata la macchia più vistosa. E il cantiere oggi quindicenne è stato fatale anche al centrosinistra, che pure doveva al disastro dei predecessori, la prima storica affermazione a palazzo Cernezzi dopo l’entrata in vigore dell’elezione diretta del sindaco. La giunta Lucini che così male non aveva fatto, non fosse altro per il Pgt e l’allargamento della Ztl, aveva indicato il cantiere infinito come “core business”. Ma è andata male. E a nulla è servito non ricandidare il sindaco uscente che si era intestato tutta la pratica. Certo, poi, è arrivata la Regione e il problema non ha più turbato i sonni degli inquilini di palazzo Cernezzi. Ma non si fa certo peccato nel pensare che nella vittoria di Rapinese abbia avuto il suo perché l’onda lunga del lungolago che ha sommerso tutti gli altri.
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