Siamo un Paese dove spostarsi sta diventando la cosa più rischiosa. I ponti crollano e i treni deragliano per fare una sintesi forse brutale ma purtroppo non molto lontana dalla verità. Mario e Giuseppe erano ai comandi di quel gioiello che è (e tale rimane) il Frecciarossa 1000: la loro vita è finita mentre stavano lavorando. Sul primo treno che da Milano porta a Roma, quell’alta velocità che molto acutamente qualche anno fa i creativi del Gruppo Ferrovie avevano ribattezzato «la metropolitana d’Italia».
Morti, come Ida, Pierangela e Giuseppina Alessandra: meno di due settimane fa sono state ricordate nel secondo anniversario della tragedia di Pioltello. Stavano andando a lavorare, come migliaia di pendolari ogni giorno: Mario e Giuseppe invece lo stavano già facendo, lanciati a tutta velocità verso un destino tragico.
Tragedie come queste vanno oltre l’incommensurabile valore della vita umana, il dolore di chi resta, gli interrogativi sul domani.
Nulla torna più come prima, anche per chi da quelle lamiere ci è uscito vivo, malconcio ma vivo. La paura ti accompagnerà sempre, perché ti sei scoperto indifeso, vulnerabile, in quello che è un gesto normale, comune: prendere un treno per andare al lavoro. O imboccare un’autostrada per andare al mare e passare sopra un ponte.
In un mondo sempre più connesso seppure virtualmente, ci scopriamo deboli nei gesti quotidiani. Un ponte che cade, uno scambio che non funziona: quella velocità che caratterizza le nostre vite e che riduce ogni distanza diventa improvvisamente la nemica. La fine, ma anche l’inizio: purtroppo di un teatrino visto e rivisto, trito e ritrito. Le accuse, le ipotesi, le polemiche. E alla fine tutto ricomincia come prima.
Verità e giustizia sono le parole usate dai parenti delle vittime di Pioltello due anni dopo la tragedia. E sono le stesse richieste di quelli del viadotto di Genova, sbriciolatosi nel nulla. E saranno quelle dei familiari di Mario e Giuseppe, morti mentre stavano portando centinaia di persone da Milano a Roma e da qui a Napoli e Salerno. Poteva essere una carneficina, ha detto il questore di Lodi pochi minuti dopo la tragedia, e ha assolutamente ragione: un treno lanciato a 290 all’ora sui binari è come un missile impazzito. Con tutto il dolore possibile, se le vittime sono state solo 2 è quasi un miracolo.
Ma al di là delle statistiche, di chi dice che sono cose che possono succedere ovunque (ed è vero, succedono) e dei freddi numeri, la sensazione di fondo è di un’insicurezza diffusa che rende più fragile tutto. E tutti. Si può morire anche andando al lavoro, stipati in un treno pendolari, ai comandi di un gioiello della tecnologia lanciati a tutta velocità su una rete che dovrebbe essere il vanto del Paese per una fatalità, un errore umano. Una distrazione di chi doveva fare bene il proprio mestiere, magari vigilare e non l’ha fatto.
E allora il problema non è la ricerca di un colpevole da mettere alla gogna, ma di responsabilità chiare. Responsabilità, parola di cui questo Paese ha bisogno più del pane. Un concetto che sembra passato di moda, nell’oceano dei distinguo, dei però, dei «tanto fanno tutti così», dei controlli che non si fanno o dei lavori fatti male.
Tecnicamente quello di ieri è uno «svio»: in senso più ampio la parola può essere intesa anche come sviamento, l’allontanamento da un modo di fare, una consuetudine. E allora vengono in mente le parole di Charles Pèguy: «Si lavorava bene. Non si trattava di essere visti o di non essere visti. Era il lavoro in sé che doveva essere ben fatto». Ecco, forse questo Paese ha perso il senso di fare le cose bene. Un tragico svio.
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