Quando la storia ritorna come farsa

Il generale Vannacci è un personaggio che sarebbe piaciuto moltissimo a Paolo Villaggio, che su quel cognome eminentemente fantozziano avrebbe costruito - ci si può giurare - qualcuna delle sue irresistibili variazioni sul tema: il generale Vannazzi, il generale Vannozzi, il generale Vannocci, il generale Vannassi…

E lo avrebbe certamente coinvolto in alcune delle scene cult del suo celeberrimo repertorio: Vannacci che gioca a tennis - “Generale, batti? “Che fa, mi dà del tu?” “No, batti lei, congiuntivo…” - Vannacci che va a caccia - “Ma lei non è un generale, lei è una iena!” “È vero, ed è anche un bellissimo esemplare!” - Vannacci alla cena della contessa Serbelloni Mazzanti Vien Dal Mare - “Il pomodorino me lo pappo io!” - Vannacci al cineforum del professor Guidobaldo Maria Riccardelli - “Generale, lei ama La corazzata Potemkin, vero?”.

Ma anche un genio come Monicelli avrebbe colto a pieno il suo potenziale metaforico, che lo avrebbe reso un interprete perfetto del film cult “Vogliamo i colonnelli”, strepitosa commedia satirica sul tentativo di colpo di Stato Borghese, dove avrebbe rivaleggiato in alcune scene madri con il tenente colonnello savoiardo Ribaud, il tenente di vascello Teofilo Branzino, il golpista greco colonnello Automatikos, il rimbambitissimo generale Alceo Pariglia e il formidabile addestratore delle milizie Franz Cavicchia, detto “nerchia”, cintura nera di karate.

Ma non è finita qui, perché è impensabile che Vannacci non diventasse punto di forza di “Alto gradimento”, la trasmissione ideata da Arbore, Boncompagni, Bracardi e Marenco che negli anni Settanta ha stravolto il modo di fare la radio grazie alla sua totale assenza di filo logico e al florilegio di personaggi assurdi, grotteschi e soprattutto cialtroneschi, quali l’ex federale Ermanno Catenacci, l’indomito comandante Raimondo Navarro, il colonnello Buttiglione (diventato poi generale Damigiani) e l’ex colonnello nazista Otto Müller, eroe della Cirenaica.

Anche se la verità più profonda sull’identità del vannaccismo probabilmente l’ha colta, in tempi non sospetti, Federico Fellini quando in “Amarcord”, durante la parata dei gerarchi e dei gerarchetti nel sabato fascista riminese, lo zio Lallo, il parassita che vive alle spalle della famiglia senza lavorare, gran Don Giovanni e capomanipolo da esibizione, scolpisce nella pietra la sentenza definitiva sulla nostra immutabile Italietta da quattro soldi: “Io dico soltanto questo: Mussolini cià due coglioni così!”.

Eh sì, ce ne sarebbero di cose da dire e da scrivere sul generale Vannacci - che proprio in questi giorni sta allestendo il suo partito personale di “superdestra” - tra l’altro tutte interessanti da un punto di vista strettamente antropologico, perché nulla nasce dal nulla e tutto ha una storia. E anche questa storia è una “nostra” storia. L’importante è non uscire dal suo ambito, dal suo solco, dal suo alveo culturale.

Che è quello dell’avanspettacolo, della fiera di paese, della dimensione circense, che la storia del postfascismo, del parafascismo o del fascismo eterno, come sostenevano - sbagliando, perché il fascismo è morto nel 1945 - Umberto Eco e l’intellighenzia di sinistra, è fatta proprio da soggetti del genere, da macchiette, poveracci, scappati di casa, fanfaroni, reduci polverosi, residuati bellici di un mondo da operetta. Personaggi felliniani, appunto. Ai quali dedicare una crassa risata e finiamola lì.

Proprio per questo motivo solo quei cervelloni, quegli intelligentoni, quei clamorosi tromboni della sinistra vecchia e nuova potevano vedere in Vannacci un pericolo reale per la democrazia, un eversore delle regole sacre, democratiche e - naturalmente - antifasciste della guerra partigiana, il duce 4.0 della reazione clerico-fascista pronta a mettere a soqquadro le libertà costituzionali e allerta allerta e allarme allarme e aiuto aiuto, che il generale dovrebbe fare un monumento a quel genio che qualche tempo fa, sul giornale dei fenomeni, ha reso noto al Belpaese il saggio “Il mondo al contrario” spacciandolo come il nuovo “Mein Kampf” - tutto vero - e trasformando così un anonimo libronzolo - tesi da quinta elementare, scrittura da terza elementare - che nessuno si sarebbe filato nel successo editoriale dell’anno e garantendo al Perón italico un’elezione plebiscitaria al Parlamento europeo, al modico stipendio di 12mila euro al mese. E poi dicono che la sinistra odia la destra.

Ora, si potrebbe obiettare che chi ha venduto 250mila copie e preso mezzo milione di voti non possa essere liquidato in questo modo. È vero, il voto è sacro.

Ma questo, in fondo, vuol dire poco, che in questo paese chiunque vada in fiaschetteria il sabato sera a ululare che gli albanesi hanno il furto nel sangue, che piove governo ladro, che qui è tutto un magna magna, che le negre saranno pure italiane, ma sono soprattutto negre e che le donne sono tutte zoccole, diventa, al terzo giro di bianchi sporchi, l’anima della festa. E poi il qualunquismo è un sottoprodotto storico delle democrazie, da Poujade in Francia a Giannini in Italia a tanti altri, per non parlare di quelli di oggi, e di conseguenza va preso e analizzato per quello che è. Non per altro, che non è. Solo per quello che è.

Quindi una sinistra seria - cosa che non è - farebbe meglio a evitare, anche per non coprirsi di ridicolo, di additare il generale come il nuovo Mussolini, e con la faccia di crederci davvero, perché altrimenti Schlein e compagni piombano loro in piena sindrome fantozziana, alla quale la nostra sinistra alle vongole è particolarmente proclive: Mussolazzi, Mussolozzi, Mussolacci, Mussolocci… E allo stesso modo, sarebbe opportuno che la destra, che sarebbe anche una cosa seria, molto seria - ma che in Italia non è - si desse ben altri riferimenti ideali, che altrove sono De Gaulle, Churchill, Adenauer e Thatcher, mentre qui siamo ancora ai pagliacci che si baloccano con la Decima Mas, i busti del Testone e le rivendicazioni su Nizza e Savoia.

Come per dare per l’ennesima volta ragione a Marx - Marx ha fatto anche cose buone - quando scriveva che la storia si ripete sempre due volte:la prima come tragedia, la seconda come farsa.

E indovinate un po’ qual è la nostra.

© RIPRODUZIONE RISERVATA