Non si tratta di improvvisarsi monarchici fuori tempo massimo, né di atteggiarsi a esterofili proprio quando, per una volta, il sentimento patriottico – depurato da faziosità politiche – può rilevarsi utile. Piuttosto, il discorso televisivo che Elisabetta II ha rivolto ai cittadini britannici va sottolineato per la modernissima abilità comunicativa che una signora di 93 anni, seduta in un castello le cui prime pietre furono posate nell’XI Secolo, onorata di un titolo che ricorre spesso, ormai, solo nei libri di Storia e negli annali del rock, ha dimostrato di possedere. Quattro minuti o poco più, un vestito verde che ha trasmesso una sensazione di ottimismo, quei gioielli che si confanno allo status di monarca senza farla sembrare una statua sovraccarica di devozione, capello impeccabile perché va bene l’isolamento ma non era il caso di presentarsi con un cespuglio laddove, più propriamente, ha sede la corona. Una parentesi perfetta anche perché rara: non tutti i giorni Elisabetta rivolge un discorso ai suoi sudditi. Lo fa solo nelle occasioni rituali e in circostanze eccezionali. La sua sola apparizione sugli schermi è bastata dunque a stabilire l’eccezionalità della circostanza.
Chiamata davanti alla telecamera in un clima di tale urgenza, la Regina non ha mosso ciglio, né si è concessa alcun gesto emotivo. Di certo ha evitato che la voce le si incrinasse per un moto di commozione e non si è neanche sognata di spremere una lacrima. Ha parlato invece da istituzione incarnata, un ruolo che sostiene dal 1952, e da volto dignitoso di una nazione sul quale, nonostante i diffusi sentimenti anti-monarchici, l’irritazione per le spese necessarie a sostenere la pompa reale, la spaccatura creata dalla Brexit, la stampa scandalistica che dalla monarchia e dai suoi privilegi trae nutrimento quotidiano, i britannici sanno di poter contare nei momenti difficili.
E dunque in una stagione in cui la Gran Bretagna va soggetta a critiche sulla gestione dell’epidemia – dalla teoria, mezza applicata e mezza no, dell’immunità di gregge, a un premier gigione che a furia di stringer mani e dispensare ottimismo ha finito per ammalarsi -, la Regina è riuscita a confermare che, al di là dei dubbi e degli errori, delle fregnacce e della pubblicità, c’è ancora una nazione nel cui nome ritrovare compattezza e dalla quale trarre coraggio.
Elisabetta ha messo in campo la sua studiata presenza regale, sapendo bene che la sua persona è un rimando vivente a una storia lunga e spesso, anche se non sempre, gloriosa. Poteva non bastare, tuttavia, se quei quattro minuti di video non fossero stati sostenuti da un testo pressoché perfetto: colmo di sentimento, ma non retorico, semplice, ma non banale. Un discorso che ha coniugato il patriottismo con una visione globale, l’orgoglio insulare con l’accettazione – invero poco britannica – di una saldatura del Paese con il resto del mondo. Non è mancata la frasetta che passerà alla storia - “We will meet again”, ci incontreremo ancora – e la giusta carica motivazionale: “Un giorno saremo orgogliosi di come abbiamo affrontato questa emergenza”.
Per noi italiani non c’è ragione di invidia: non si può dire che in questo frangente il presidente Mattarella abbia mancato al suo ruolo negli appelli rivolti al Paese dalla televisione. Il discorso di Elisabetta II, così abile e ben forgiato, è però utile anche a noi: sottolinea l’importanza delle parole, o meglio delle parole giuste. Quelle che, sole, possono consolare, spingere, motivare e, cosa anche più importante, imprimersi nella memoria collettiva. Per alcuni ci sarà perfino una lezione in più: ascoltando la Regina, infatti, risulta una volta per tutte lampante la differenza che passa tra una sovrana e un sovranista.
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