Enzo Bearzot era uno nato nella terra che si incontra dopo il Tagliamento. Come tutti i friulani che si rispettino sapeva essere testardo se pensava che era giusto quello in cui credeva. Un giorno del 1981, dopo un allenamento della nazionale a Torino, mentre gli azzurri facevano la doccia, il ct si fermò a guardare gli esercizi della Juve Primavera dopo c’era anche Paolo Rossi, in attesa di rientrare dalla squalifica per il calcio scommesse.
“Hai i fianchi di una fattrice normanna”, disse “il Vecio” al giocatore, aggiungendo la promessa che se avesse ritrovato una forma accettabile l’avrebbe portato ai mondiali dell’anno successivo. Rossi era fermo da mesi, dopo essere finito dentro il tritacarne di una delle più torbide vicende del calcio italiano, in cui c’era anche chi avrebbe dovuto essere punito e l’aveva fatta franca e viceversa. Nel campionato Roberto Pruzzo, bomber della Roma, segnava a raffica: la stampa e i tifosi in coro lo volevano in azzurro. Ma la testardaggine dell’allenatore “figlio” calcistico di Nereo Rocco, lo portò a chiamare Franco Selvaggi, discreto attaccante del Cagliari, per proporgli il viaggio in Spagna. “Vengo e porto anche le valigie”, fu l’incredula risposta. “Meglio se lasci a casa gli scarpini”, chiosò il tecnico che, in questo modo, aveva garantito a Rossi quella tranquillità che la presenza di Pruzzo tra i 22 avrebbe resto impossibile.
Tutto il resto: il taciturno Zoff nominato unico portavoce del silenzio stampa azzurro, i 3 gol al Brasile, l’urlo di Tardelli, l’esultanza del presidente Pertini, la partita a scopa sull’aereo del ritorno, nasce da lì: dai fianchi simili a quelli di una fattrice normanna. Rossi era già “Pablito” dai mondiali del 1978 che lo rivelarono al mondo. L’Italia era anche più bella di quella del trionfo di quattro anni dopo, ma nell’Argentina dei generali e dei desaparecidos dovevano vincere i padroni di casa.
Paolo Rossi non era un fenomeno del pallone: aveva due piedi normali e due ginocchia devastate. Ma il Dio del calcio gli aveva regalato quel fiuto del gol e quel guizzo che sorprendeva le difese, condiviso forse solo con il tedesco Gerd Muller prima e Pippo Inzaghi dopo di lui. È anche la notizia della sua morte è arrivata fulminea e inaspettata come le sue giocate nell’area avversaria.
Era esploso nel Vicenza di Giovan Battista Fabbri allenatore italiano all’olandese che aveva portato il Lanerossi subito ribattezzato “Paolorossi” al secondo posto in campionato dopo la Juventus grazie ai gol di Paolo capocannoniere. Tutta l’Italia non juventina, quell’anno fece il tifo per quei colori. A difendere la porta della squadra c’era Ernesto Galli che se n’è andato pochi giorni fa.
Se Roberto Boninsegna è il centravanti con la faccia di centravanti più di tutti, Pablito era quello che l’aveva meno. Era magrolno e con il volto pulito del ragazzo della porta accanto: tutto fuorché il killer d’area che sarebbe stato, sia pure a singhiozzo. Ai mondiali di Spagna sbocciò, come un diamante da un mucchio letamoso di critiche anche troppo ingenerose, nella partita più impossibile di tutti: quella con il Brasile che era secondo solo a quello di Pelè-Didì-Vavà pur se con meno accenti. L’Italia non era sfavorita, di più. Solo Bearzot e pochi altri avevano capito che invece ce l’avrebbe potuta fare perché i sudamericani avevano parecchi punti deboli pur se ben mascherati dal belletto delle giocate di un sontuoso centrocampo con Falcao, Zico , Socrates e Cerezo, Una di queste pecche era l’eretico estremismo offensivo che portava i due terzini a sfiancarsi per appoggiare l’azione del centrocampo e poi dover rientrare, a scapito della lucidità. Il ct friulano suggerì a Rossi di sfruttare questa vulnerabilità e di tagliare alle spalle di Junior. Pablito eseguì e con tutta la Nazione si lasciò alle spalle anche gli anni ’70 con la cupezza del terrorismo e entrò negli ’80 spensierati gioiosi e incoscienti com’era l’Italia anche un po’ dissennati a modo di quel Brasile, ma soprattutto colorati. Non a caso per molte famiglie italiane del ceto medio, il mondiale di Spagna coincise con l’acquisto della prima televisione a colori, “sdoganata” dopo l’austerità imposta al paese anni prima dalla grande crisi petrolifera. Ecco perché una generazione, quella che oggi ha almeno 50 anni, con Rossi piange il ricordo dei sogni di quel mondiale, non a caso rimasto nel cuore più dell’altro del 2006. Ecco perché Pablito era il “ragazzo come noi” cantato da Venditti. I calciatori di allora non erano fisicati e tatuati, ma persone che si mischiavano tra la gente come ha continuato a fare Rossi fin quando la malattia glielo ha consentito. Sempre con quel sorriso timido e dolce con cui lo ricorderemo.
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