«Camminavo lungo la strada con due amici quando il sole tramontò, il cielo si tinse all’improvviso di rosso sangue. Mi fermai, mi appoggiai stanco morto a una palizzata. Sul fiordo nero azzurro e sulla città c’erano sangue e lingue di fuoco. I miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura… E sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura».
Se è vero che fra tutti i grandi scrittori del secolo scorso Louis-Ferdinand Céline rappresenta “lo” scrittore del Novecento per antonomasia, così come fra i tanti capolavori di quel periodo storico “Viaggio al termine della notte” è “il” romanzo del Novecento, senza il quale nulla dei concetti base del secolo breve - la guerra, l’antisemitismo, il colonialismo, il fordismo - può essere compreso a pieno, allo stesso modo Edvard Munch rappresenta in assoluto “il” pittore del Novecento, così come il suo celeberrimo “L’urlo” è “il” quadro del Novecento.
È lo stesso artista a raccontarlo in un passo dei suoi diari, tema ispiratore delle plurime versioni di quel capolavoro del 1893, così come di tutti gli altri, protagonisti di una mostra aperta a Palazzo di Reale di Milano fino al 26 gennaio prossimo, che cristallizza in un’immagine di potenza assoluta, inarrivabile, l’angoscia esistenziale dell’umanità contemporanea. Un’opera dal potere evocativo mostruoso, capace di forgiare come probabilmente nessun’altra l’immaginario collettivo di questo povero Occidente allo sbando e alla deriva, di diventare icona anche commerciale, anche pop, di una condizione umana disperata e irreversibile, figlia della violenza e dell’ingiustizia, certo, anche se questo non basta, visto che violenza e ingiustizia accompagnano la storia degli uomini dall’alba dei tempi, ma del molto più radicale e devastante svuotamento di senso dell’esistenza. Il Novecento, appunto.
In fondo, è questo il filo rosso che tiene assieme le molteplici parti del secolo più grandioso e terribile della storia. La solitudine. La solitudine dell’uomo. La solitudine di un essere solo, solissimo, l’essere più solo dell’universo, nel momento in cui, come preconizzato da Nietzsche, Dio muore non perché non esiste - se uno muore, significa che prima era vivo, prima c’era - ma perché scompare completamente come presenza, come seme, come senso. Prima della modernità non esiste una sola riga, una sola nota, una sola pennellata che non sia completamente permeata, avviluppata e informata dal pensiero del divino, dalla sua coerenza, dalla sua cogenza, dalla sua immanenza. Dalla modernità in poi, da Cartesio in poi, e in modo eclatante dal Novecento in poi, Dio scompare, sostituito dal denaro, certo, ma forse ancora di più dalla “tecnica”, che se ne va per la sua strada, si autonorma, si autoguida e si autogiustifica, senza aver più bisogno di alcun collegamento con la “scienza”, cioè con l’umanesimo. Frattura drammatica e rovinosa sulla quale i filosofi dell’esistenzialismo, Husserl in particolare, hanno scritto parole profetiche e definitive. Il cielo è vuoto - finalmente ci siamo riusciti! - la luna è indifferente, l’angoscia e l’agonia esistenziale si spargono sulla terra e ne diventano padrone, gli uomini non sono più uomini, non rispondono più ad alcun vincolo etico - se Dio non esiste, allora tutto è lecito, scriveva Dostoevskij nei “Karamazov” - e quindi si trasformano in morti viventi, in zombi, in pupazzi ossuti delimitati dal mero e insensato ciclo nascita-esistenza-morte, senza una direzione, senza una morale, senza un destino.
Nell’ampia scelta delle opere di Munch esposte a Milano, c’è tutto il dolore insensato dell’uomo moderno, che liberandosi dal sacro è diventato sì laico, autonomo e indipendente, ma, allo stesso tempo, solo e disperato, immerso in un nichilismo che diventa particolarmente insopportabile proprio in questo momento dell’anno, quando, di fronte al mistero, la finzione della nostra recita perbenista e conformista ci presenta il conto e ci fa vedere con spietato realismo quello che siamo in realtà. Farisei. Filistei. Sepolcri imbiancati. Tartufi. Borghesucci da quattro soldi, che manco si rendono conto della morte che sono, pur essendo ancora in vita.
E non è un tema di mera arte o mera filosofia. È un punto anche eminentemente politico. E cioè di come fare i conti con l’uomo abbandonato - non solo l’uomo bianco abbandonato su cui Trump e quelli come lui hanno costruito le loro fortune, questo non basta - ma l’uomo abbandonato in senso lato, abbandonato da tutto e rimasto solo e inerme di fronte al cosmo. La politica, la nuova politica, quella sedicente vicina al popolo e alla gente comune tanto disprezzata dalle élite, dalle caste, dalle terrazze, dagli arroganti snob sinistroidi e bla bla bla, dovrebbe porsi anche questo - soprattutto questo - come fine ultimo delle sua azione politico-culturale. Tentare di costruire delle armi per combattere il nichilismo e l’angoscia esistenziale così lucidamente immortalata dal genio norvegese.
Vasto programma. Peccato che dando anche solo un occhio distratto alle basi programmatiche di “Atreju” - la kermesse di Fratelli d’Italia alla quale ormai non si può proprio mancare: nel senso che se non ci sei, vuol dire che non conti niente - mi sa che siamo ancora in alto mare. Tra le pulsioni adolescenziali della pallosissima “La storia infinita”, le trombonate sulla Tradizione con la “t” maiuscola, gli elfi e i nani del malcapitato Tolkien liofilizzato in sedicesimo, la risibile Batracomiomachia tra fascismo e antifascismo, l’ennesima rivisitazione posticcia del futurismo marinettiano - scrittore (scarso) definito da D’Annunzio “un cretino con qualche lampo di imbecillità” - e le supercazzole di un ministro di mezza cultura che usa paroloni per impressionare un uditorio di mezza cultura, millantando una grande cultura che non ha, siamo ancora tanto, ma tanto lontani dall’obiettivo. Più vicini ai temi di Vespa che a quelli di Munch, a dir la verità. Che qualcuno cacci un vero urlo, per favore.
© RIPRODUZIONE RISERVATA