Quando qualcuno mette mano alle riforme istituzionali in Italia è sempre la solita solfa e si può star certi di due cose. La prima è che è destinato a un fallimento, la seconda, bene che vada, che esca un contentino che non sconvolge l’assetto istituzionale. Difficile capire la ragione di questa allergia diffusa, tra i politici e il Paese, ai cambiamenti della Costituzione, ottima per carità, ma forse un po’ datata e scritta nell’epoca in cui l’Italia usciva da vent’anni di dittatura fascista, e la Carta risente eccome di questo.
Negli ultimi anni abbiamo assistito, dal divano e con il sacchetto di pop corn, a vari tentativi di riforma. Che sono tutti o quasi naufragati dentro le commissioni bicamerali e attraverso i referendum consultivi. Renzi, addirittura, ci ha lasciato, politicamente la ghirba, anche se si ostina ancora a credere di essere vivo, sempre politicamente è ovvio, ed è già in prima fila nel dibattito su premierato dolce, abolizione dei senatori a vita e norme anti ribaltone. Come avrete capito solo leggendo i titoli, non si tratta di roba forte.
La questione dei senatori a vita nominati dal capo dello Stato appare una faccenda politica, forse dovuta al fatto che sono perlopiù orientati a sinistra. Evidentemente a destra fanno difetto le figure eminenti. Ma ora al governo c’è il centrodestra o meglio la destracentro e si capisce che voglia disfarsi di potenziali avversari in grado di alterare gli equilibri, quasi sempre in bilico di palazzo Madama. La norma anti ribaltone non impedisce i cambi di casacca, ma si limita a stabilire che il presidente del Consiglio non può essere cambiato senza passare dal voto, se non con il politico a lui affine. E si sa che nel salire sul carro del vincitore si trova sempre la fila. Anche qui, l’obiettivo è politico: quello cioè di scongiurare il solito governo tecnico, un fantasma che sta turbando i sonni anche di Giorgia Meloni.
Infine c’è il core business di questa proposta di riforme elaborata dal ministro Elisabetta Casellati: il cosiddetto “premierato dolce”. Premesso che in campagna elettorale, la destracentro ci ha riempito le orecchie di presidenzialismo, ma anche questa cosa è finita in cavalleria come tutte le promesse su fisco e pensioni, disintegrate da una manovra che sembra scritta dalla vituperata Elsa Fornero.
Il premierato disegnato da Casellati, prevede l’elezione diretta del presidente del Consiglio con l’obbligo da parte del capo dello Stato, di conferirgli l’incarico per la formazione del governo. All’inquilino di palazzo Chigi spetterebbe in maniera esclusiva la scelta dei ministri che, oggi, almeno formalmente, sono nominati da Quirinale su indicazione del Primo ministro. Hai detto cotica, verrebbe da commentare di fronte a cotanta rivoluzione. Che, come al solito in Italia, sembra uscire dal celeberrimo romanzo di Tomasi di Lampedusa con il nome di un felino nel titolo. Perché alla fine, adesso come funzionano le cose? Com’è nato il governo Meloni? Con la nomina da parte di Mattarella del leader del partito più votato dagli elettori. E funziona così dal 1994, salvo i casi in cui non vi è un vincitore conclamato che esce dalle urne.
Va detto poi che in Parlamento, al netto del soccorso renziano, non si raggiungerà la maggioranza qualificata dei due terzi per far passare la riforma senza rischiare il referendum. E poiché la coalizione che governa è minoritaria nel Paese non è difficile immaginare che anche questa proposta così come quelle che l’hanno preceduta sarà affossata dai cittadini. E state tranquilli che comunque nessuna metterà mano all’unica versa riforma indispensabile: quella elettorale. Perché le regole vigenti, si sa, consentono alle segreterie di partito la scelta dei parlamentari. Con buona pace di tutte le buone intenzioni per conferire un maggior potere ai cittadini elettori.
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