Un bilancio risanato val bene un Warhol, e anche due. Anzi, diciamola tutta: un bilancio a posto val bene un paradosso.
Quale? Semplice: uno dei musei più importanti del mondo, il Metropolitan di New York, ha fatto sapere che per tappare il “buco” nei conti – qualcosa come 150 milioni di dollari – potrebbe essere costretto a vendere parte della sua collezione. Una parte minima, probabilmente, visto che il “Met” ospita un numero enorme di opere, ma comunque un passo verso l’impoverimento, verso la diminuzione della sua raccolta e, dunque, del suo status di faro (e porto) artistico mondiale. Ed ecco che si intravede il paradosso: siccome anche altre istituzioni hanno fatto sapere di avere la stessa intenzione – quelle di Baltimora e di Brooklyn, per esempio – avremo presto dei musei dai bilanci impeccabili ma dalle pareti bianche di intonaco, dai conti floridi, inattaccabili, ma senza più capolavori da mettere in mostra. Avranno ancora il diritto di chiamarsi musei, di ergersi a istituzioni di riferimento per la conservazione e la valorizzazione dell’arte, di organizzare mostre degne di questo nome?
Forse, nell’annuncio dato dal direttore del Met, Max Hollein, riecheggia una tendenza più generale. Sappiamo bene come in nome dei bilanci in attivo, del modello “azienda” in ospedale, la sanità - e qui stiamo parlando dell’Italia - abbia rinunciato a parte di se stessa, puntando sulle specializzazioni più lucrose e trascurando tanti settori così che certe lacune, in questa stagione di emergenza, sono emerse in modo allarmante e perfino tragico. E ancora: i trasporti, specie quelli su ferro, ci offrono oggi la “prima classe” e la “business class” da Milano a Roma, ma se un pendolare deve muoversi tra Paderno e Lecco corre il rischio di trovarsi su un convoglio partito senza macchinista (è accaduto giusto lo scorso agosto).
Esempi che appaiono drammatici, e senza dubbio lo sono. Eppure, se dovesse affermarsi una tendenza globale all’immissione nel mercato dell’arte di opere ora conservate nei musei, assisteremmo a un evento di portata non inferiore. Salta alla mente il cliché della famiglia decaduta che vende i gioielli per tirare a campare. Nel nostro caso, la famiglia coincide con l’umanità intera e i gioielli non sono elementi puramente decorativi e altrimenti superflui: sono la testimonianza della nostra storia, i custodi del nostro sapere, il lascito della nostra presenza sul pianeta. In loro assenza, tireremo certo a campare, ma non saremo più noi stessi.
A questo punto, per non essere fraintesi, è giusto aggiungere che il mercato dell’arte non è il male assoluto. Anzi, è proprio grazie a questo mercato se molta parte del patrimonio mondiale ha trovato valorizzazione (non solo monetaria) e diffusione. Il grande storico dell’arte statunitense Bernard Berenson contribuì parecchio a che tanti capolavori del nostro Rinascimento prendessero la strada delle collezioni private americane, ma fu anche colui che quell’arte seppe meglio studiare, catalogare e descrivere al pubblico mondiale.
A lui dobbiamo la corretta attribuzione di parecchie magnifiche opere e la condanna all’oblio di altrettante croste spacciate per lavori di grandi maestri. Un’attività compiuta (anche) per venalità: oggi ci fa rimpiangere i quadri rinascimentali appesi a un oceano di distanza ma è alla base del rispetto e dell’ammirazione che tali quadri suscitano nel mondo.
Viene però il sospetto che, a differenza del passato, il mercato operi oggi meno per passione e ricerca e più per interesse e propensione all’investimento. I quadri staccati dalle pareti del Met finiranno nelle collezioni di quel famoso 1% che ha tutto e di più, mentre il restante 99% deve accontentarsi di precarietà e distrazioni virtuali. Dopo tutto, basta cercare in Rete e di quadri se ne “vedono” quanti se ne vogliono, anche in alta e altissima definizione. Oggi si organizzano mostre di Caravaggio senza alcun Caravaggio in mostra: solo video, proiezioni 3D, ingrandimenti, percorsi semioscuri da casa degli orrori al luna park. Il Covid ha accentuato questa tendenza al distacco: al computer, in pantofole, si possono visitare Uffizi, Louvre ed Ermitage nello stesso pomeriggio. Ci hanno tolto la realtà per darci la Rete e molti di noi sembrano convinti che lo scambio sia stato vantaggioso.
Ecco, la differenza con il passato sta proprio qui: i nostri nonni e bisnonni forse non potevano permettersi il lusso di andare a Parigi e a San Pietroburgo ad ammirare le opere di Leonardo, Tiziano e Giorgione ma sapevano che erano là, a disposizione del pubblico e dunque anche di loro, se un giorno fossero riusciti a organizzare il viaggio; oggi quelle opere le troviamo a distanza di un clic, ma sono ridotte a spettri, illusioni, immagini evanescenti. Gli originali staranno presto a casa di Bezos, Musk o di qualche neomagnate orientale. Mentre noi, nella cultura come nella democrazia, nella vita sociale come in quella sentimentale, rimaniamo chiusi in casa a giocare - appunto - con le ombre cinesi.
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