Rivoluzione culturale?
No, la solita commedia

Passato il momento delle risate, degli sghignazzi, degli ammicchi, delle strizzatine d’occhi, del ridicolo, del patetico, del grottesco, soprattutto, delle battutacce da caserma sul sessantenne piccoletto e sulla ragazzona furbissima e impunita - immortalata da Paolo Mieli nella puntata del 2 settembre di “In Onda” con una definizione di perfidia luciferina - passato il momento del circo, dell’avanspettacolo delle sceneggiate napoletane e pompeiane, insomma, passata tutta la fuffa, il ciarpame, la spazzatura, del feuilleton Boccia-Sangiuliano resta un solo elemento, uno solo, davvero drammatico per il governo Meloni. Il fallimento della rivoluzione culturale della destra nei palazzi del potere della sinistra.

Gennaro Sangiuliano, al netto del suo profilo non eccelso, non era un ministro qualunque. Paradossalmente, all’interno della visione di uno strappo palingenetico e antropologico nella storia recente d’Italia, era importante tanto quanto quello degli Interni o degli Esteri. Addirittura di più, per quelli appena usciti “dalle fogne”, dal ghetto, dal lebbrosario nel quale la cultura dominante li aveva cacciati per mezzo secolo. A lui era stato dato l’incarico di frantumare il tetto di cristallo del regime gramsciano, di far crollare il muro di Berlino del conformismo sinistroide che da sempre governa, domina e impera nelle stanze dell’establishment intellettuale. Un obiettivo benemerito, perché della cricca farisea, filistea, tartufesca, perbenista, terrazzista, salottista, amichettista del sinistrume culturale, con tutte le sue mandrie di scrittoronzoli, criticonzoli, registonzoli e attoronzoli, retori della lotta partigiana ora e sempre, indignati in servizio effettivo permanente e tromboni e trombonesse del femminismo filogino 4.0 non se ne può davvero più. Un vasto programma. Da far girare la testa. Da far pensare in grande. E invece, eccoci qui. A un cinepanettone dei Vanzina.

Questa drammatica Caporetto ha ispirato negli ultimi giorni delle analisi oneste, profonde e amarissime a due (dei pochi) intellettuali di valore della destra come Marco Tarchi su “La Stampa” e Marcello Veneziani su “La Verità”, che hanno colto perfettamente la profondità dello smacco e la sensazione di una sfida già persa. E, questa volta, tutta per colpa della destra. Cioè dei loro. E il tema non è tanto quello degli strafalcioni su Colombo e Galileo (mamma mia…), su Dante scrittore di destra (anche un studente del liceo sa che destra e sinistra sono concetti che nascono con la Rivoluzione francese), sui libri dello Strega commentati senza averli letti (ha cercato di fare il Longanesi senza riuscirci) e tutto il resto delle gaffe del permalosissimo Genny. No, non è questo il tema. Il tema vero è la convinzione risibile che basti far fare il ministro a uno dei tuoi, a un giornalista che ha scritto dei libri – non propriamente imperdibili, tra l’altro - iperattivo e vanitoso per mettere in campo una rivoluzione copernicana nel paese della cultura. Senza staff di livello. Senza manager sperimentati. Senza intellettuali veri all’altezza del compito. Senza selezione del personale. Senza una visione di lungo periodo. Come se fosse sufficiente una mostra sul solito Tolkien o una fiction scadente sulle foibe o su Mameli per dire che ora è cambiato tutto. Comico.

Nell’analisi spietata di Tarchi e Veneziani c’è proprio questo. Il cambio di linea non è stato affatto un cambio di linea, gli stereotipi sono rimasti gli stessi, soprattutto nel campo dolentissimo delle nomine: generalmente modesti militanti, personaggi che attaccavano i manifesti e che adesso fanno i passacarte. O i servi. Prima erano i servi del Re e adesso sono i servi della Regina. E quindi non cambia niente. Resta solo il loro ego, la loro carriera, il loro stipendio. E’ gente militante, che fa politica, non scienza e che non sa manco chi è De Felice. E poi, quale mainstream vuoi abbattere se usi gli stessi metodi del mainstream senza essere Calvino o Vittorini?

Ora, è vero che quel che valeva per il duce vale anche per Sangiuliano - Sangiuliano ha fatto anche cose buone – e bisogna rendere onore alla scelta di varare il Museo della Shoah e di progettare quello del Ricordo, che in un paese dove Tito è ancora considerato uno statista è una medaglia al merito, così come quello di tagliare i finanziamenti pubblici ai filmonzoli dei registonzoli di cui sopra. Ma poi è platealmente cascato nel solito familismo amorale all’italiana, proprio come l’odiata sinistra: l’idea di scegliere i direttori dei grandi musei solo tra gli italiani è penosa, quella di nominare solo giornalisti e conoscenti, schifando tecnici ed accademici, è suicida. Così come quella di essersi avvitato nel piagnonismo tipico di questo governo, nella continua lamentazione sull’amichettismo della sinistra (che esiste) senza dimostrare di essere capace di produrre un pensiero originale in dialogo con il miglior pensiero internazionale, invece di seminare sciocchezze provinciali sull’italianità da Strapaese.

E’ una demolizione radicale, che viene da chi dentro quel mondo usa la testa e non lecca le scarpe e che quindi assume un valore rilevante, molto più dello starnazzare dei cervelloni sinistrorsi, che magari si illudono che la Meloni perda voti per questa vicenda. Sì, buonanotte. Il problema per il premier è un altro, ed è un problema di lungo periodo, se vuole veramente “fare la storia”, senza che quella frase le si ritorca contro e la copra di ridicolo. E in tal senso la scelta del nuovo ministro non sembra una gran trovata. Al di là del fatto che Giuli non è laureato - ma questo non vuol dire nulla: è una persona molto colta e pure Benedetto Croce non aveva finito gli studi - arriva dal mondo dell’ultradestra (ma scegliere un liberale a 24 carati, mai?)e che in quanto a vanità, narcisismo e furbismo non è secondo a Sangiuliano, il vero punto debole di questo governo è che continua a pescare tra i giornalisti. Che, come noto, già non sanno fare il loro di mestiere. Figurarsi quello degli altri.

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