Scherza con i santi ma lascia stare Peppone. Si sa che Matteo Salvini ama le invasioni nel campo religioso. Durante il suo tour elettorale in Emilia Romagna, però, nella tappa di Brescello, paese di grande notorietà perché lì è ambientata la saga di Don Camillo e appunto Peppone uscita dalla formidabile penna di Guareschi, il leader leghista ha pensato bene di appropriarsi anche del celebre personaggio reso immortale dall’interpretazione di Gino Cervi: il sindaco nemico ma non troppo del parroco. Salvini si è fatto fotografare abbracciato alla statua che raffigura Giuseppe Bottazzi e ha detto che oggi sarebbe stato anche lui dalla parte della Lega.
E davvero qui non c’è da scherzare. Perché Peppone, grazie al suo ideatore e anche a chi lo ha portato sullo schermo nella serie di film che a distanza di 60 anni riscuotono ancora un successo impressionante, non è un personaggio che si possa prestare a fare da testimonial a chicchessia. Vero che il capo del Carroccio ci ha già provato anche con qualcuno molto più importante in ambito appunto religioso, ma questo non lo assolve. Non ha fatto male Pierluigi Bersani, durante il programma “Di martedì” su La7 a sottolineare come, se al posto della statua ci fosse stato il vero Peppone, Salvini sarebbe tornato a casa con i connotati stravolti. E forse le avrebbe buscate anche da don Camillo, il parroco alter ego di Peppone ma sempre pronto a fare causa comune con il sindaco, magari dopo la scazzottata di rito, quando c’era di mezzo il bene di tutti. Ecco perché appare quasi sacrilega l’etichetta posta da Salvini sul sindaco inventato da Guareschi. Oltretutto Bottazzi è un uomo concreto, costretto dal ruolo politico a utilizzare le parole, con cui peraltro appariva spesso a disagio, ma più aduso a fare i fatti, anche attraverso il suo lavoro di meccanico, uno dei migliori della Bassa di allora, a dar retta all’autore. Una figura un po’ diversa, al di là dell’appartenenza politica (Peppone è nelle opere di Guareschi un comunista al cento per cento seguace di ogni direttiva di partito ) da quella del capo della Lega. Un personaggio, il sindaco di Brescello, così coerente con se stesso e con la cultura del lavoro che, quando don Camillo promosso monsignore e costretto controvoglia a rientrare a Roma dal l’amato borgo, gli chiede di “sabotare” la vettura che l’avrebbe riportato nella capitale, ottiene il risultato opposto. “Perché io – spiega Bottazzi – sono uno che le macchine le ripara non le rompe”. E poi anche lui, elevato al rango di senatore sarebbe dovuto rientrare alla base con una relazione per il partito che don Camillo, con la scusa di correggere gli errori di ortografia e grammatica, aveva trasformato in una sorta di enciclica papale. Questo episodio, uno dei tanti simili della fortunata serie letteraria, fa capire quanto diverso fosse il clima che era anche quello di un’altra epoca e di un’altra Italia che, pur divisa dalle feroci passioni della politica (quando la politica era una cosa seria), vedeva tutti impegnati in una ricostruzione post bellica destinata a lasciare ai figli un futuro migliore di quello dei padri. Davvero, tutto ciò, non c’entra nulla con l’oggi, dove, ci conferma l’Istat, molte famiglie si devono appoggiare alle pensioni dei nonni. Per questo Salvini, con Peppone che, come don Camillo era anche un campione di accoglienza nei confronti dei bisognosi al punto da rinunciare spesso agli interessi della sua fazione, ha fatto una gaffe a impossessarsi del personaggio guareschiano. Che potrebbe peraltro anche costargli qualcosa nel voto in Emilia. Perché da quelle parti, toccategli tutto ma non don Camillo e Peppone che hanno portato a quella terra attraverso gli scritti di Guareschi e la loro trasposizione cinematografica, una fama mondiale.
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