Quanti “like” può valere l’Olocausto? Messo così, il concetto fa inorridire e l’articolista – ovvero chi scrive – meriterebbe di essere immediatamente esposto alla gogna della piazza virtuale. Eppure, scostato il velo della provocazione, la domanda resta in attesa di risposta.
Il “like”, la condivisione, il commento magari infiorettato con una emoji o una “gif” fanno parte della comunicazione di oggi; di tutto si parla con questi strumenti e tutto si commenta, si esalta e si condanna: dalla scienza medica alla guerra, dal calcio allo spauracchio nucleare. Perché non l’Olocausto? Forse ci spaventa la superficialità della lingua social, ci ripugna la sua sua coloritura banale se messa a confronto con la grave cupezza della tragedia. Certo, è probabile: l’alternativa, però, potrebbe essere l’oblio, la cancellazione, il dilagare del cancro negazionista.
A questo deve pensato Liliana Segre, la senatrice novantenne sopravvissuta all’orrore di Auschwitz, quando ha dichiarato che le piacerebbe conoscere Chiara Ferragni e che vorrebbe invitarla a visitare il Memoriale della Shoah di piazza Safra a Milano: “I visitatori sono ancora troppo pochi”, ha commentato, “forse lei, che con suo marito Fedez si impegna sul sociale, potrebbe portare qui tanti ragazzi”.
In attesa della risposta di Chiara Ferragni (per ora si è fatto vivo Fedez invitando la senatrice al podcast “Muschio selvaggio”, il cui titolo, va detto, non aiuta, almeno in questo caso, a conciliare contenitore e contenuto), sta a noi farci passare l’indignazione, l’ironia che istantaneamente ci passa per la testa, il rifiuto di accostare ciò che è tragico e solenne e scolpito nella Storia con ciò che per sua natura è lieve ed epidermico come il linguaggio di una blogger-imprenditrice sintonizzata sui mutevoli trend della moda.
Eppure l’influenza che la “Blonde Salad” esercita su una nuvola sociale composta da tanti giovani (ma anche da parecchi ex giovani) è indiscussa: si può biasimare qualcuno quando cerca di afferrare la coda della sua cometa per attirare l’attenzione su ambiti anche all’apparenza molto diversi dalla sfera di competenza di un’esperta di fashion? L’anticipatore è stato Eike Schmidt, direttore della Galleria degli Uffizi di Firenze: l’invito rivolto a Chiara Ferragni perché tra un’abitino e una scarpina promuovesse anche un paio di Botticelli sollevò polemiche e ironie. Di fatto, è servito: un boom istantaneo di visitatori giovani. Quanti di questi abbiano davvero apprezzato i capolavori degli Uffizi non è dato saperlo, certo non tutti saranno corsi ad iscriversi all’Accademia: nelle loro vite, però, è comunque entrata un po’ di bellezza, un’occasione di cultura, una possibilità di arricchimento intellettuale. Molti commenti sui social furono in quella circostanza duri, impietosi e intrisi di sarcasmo. D’altra parte si sa: chi commenta su Facebook e Instagram spesso divide le sue giornate tra la tastiera e lo studio di preziosi incunaboli, per cui ha tutto il diritto di gridare all’oltraggio.
Staremo a vedere se l’invito di Liliana Segre sarà accolto e se l’eventuale visita di Chiara Ferragni al Memoriale porterà a un aumento di visitatori. Così fosse, non sarà stata una cattiva azione da parte dell’una e dell’altra signora. Certo, quel che ognuno porta con sé dopo la visita a un luogo che rinfocola la nostra più spaventosa memoria collettiva dipende dalla sensibilità individuale.
Non sottovaluteremmo però la capacità di empatia dei fan di Chiara Ferragni: chi ama la leggerezza è spesso gente molto seria.
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