Al tempo della morte di Eluana Englaro, la ragazza morta nel 2009 per l’interruzione della nutrizione artificiale e del dibattito sul fine vita che coinvolse l’Italia intera, mi colpirono molto le parole di Enzo Jannacci, che si definiva “ateo molto imprudente”, grandissimo cabarettista e autore di canzoni immortali ma in questo caso padre e soprattutto medico. Le riporto da un’intervista al Corriere. «Cervello morto? Si usano queste espressioni troppo alla leggera. Se si trattasse di mio figlio basterebbe un solo battito delle ciglia a farmelo sentire vivo. Non sopporterei l’idea di non potergli più stare accanto».
E ancora: «Io da medico ragiono esattamente così: la vita è sempre importante, non soltanto quando è attraente ed emozionante, ma anche se si presenta inerme e indifesa. L’esistenza è uno spazio che ci hanno regalato e che dobbiamo riempire di senso, sempre e comunque».
È esattamente come la penso io (ovviamente come padre, non come medico), come la pensano probabilmente miliardi di persone nel mondo e soprattutto come la pensano i genitori di Archie Battersbee, ennesimo bambino in coma a cui medici e tribunali del Regno Unito ritengono sia giunto il momento di “staccare la spina” anche contro la loro disperata opposizione.
È il punto di partenza del “teorema” di morte dei giudici inglesi che è a mio parere aberrante: poiché le prospettive di ripresa del dodicenne secondo gli specialisti sono pari a zero il bambino deve morire per legge.
Per la giustizia di Sua Maestà quel corpo è solo una pietra di scarto, nient’altro che qualcosa di inutile, un vegetale, come una zucchina, e dunque deve liberare le strutture sanitarie britanniche, è meglio per tutti, recita la giustizia britannica, anche per i genitori che per ora non capiscono ma vedranno, staranno meglio.
La Corte d’Appello di Londra ha rigettato un estremo ricorso dei genitori, dopo i verdetti di primo e secondo grado che il 13 giugno e il 15 luglio avevano autorizzato la fine della ventilazione assistita del bambino. I togati inglesi sono stati irremovibili. Sulla vita di un essere vivente, di una persona, di un’anima, decidono i giudici, sentiti i medici.
Lo hanno sentenziato ribadendo di considerare esaurita ogni ragionevole aspettativa di un risveglio del 12enne e valutando nel suo «migliore interesse» - e non si capisce da dove traggano questa conclusione, sentendosi probabilmente Dio - l’accorciamento di un’agonia che dura da mesi.
I giudici (due uomini e una donna, chissà se sono genitori) si sono limitati a fissare una proroga di 48 ore per consentire a quel padre e quella madre di rivolgersi alla Corte europea di Strasburgo dei diritti dell’uomo e verificare l’eventuale ammissibilità del caso in quella sede (altre volte negata in circostanze analoghe). I genitori (il padre si è sentito male e ha avuto un attacco di cuore) vorrebbero invece fare quel che avrebbe fatto Jannacci: vivere il resto della loro vita accanto al proprio figlio incosciente ma vivo, sentire il suo respiro, ascoltare il battito del cuore come la prima volta che lo avevano sentito nell’ecografia, sperare, stringergli la mano, soprattutto sperare in un risveglio o nel progresso della scienza, sentirlo accanto a se come una parte della loro vita, del loro essere, della loro anima, nonostante la diagnosi irreversibile di morte delle cellule cerebrali. Fino all’ultimo battito di ciglia.
L’amore di un padre e una madre è infinito, va oltre le diagnosi. I giudici hanno disposto diversamente. Ma che non si dica che quella sentenza è stata emessa in nome di Dio.
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